VIVERE LA PASQUA AL TEMPO DEL CORONAVIRUS: MORIRE E RISORGERE CON CRISTO PER RICEVERE CORAGGIO

Meditazione per presbiteri e religiosi/e
02-04-2020

Dovevo tenere questa meditazione all’inizio della Quaresima, ma l’insorgere dell’epidemia ha portato alla sospensione del ritiro del clero, programmato per il giorno successivo al mercoledì delle ceneri. Il tema che avrei dovuto svolgere allora era la terza parte della lettera di Papa Francesco ai sacerdoti dell’agosto scorso centrata sulla parola «coraggio». Riprendo questo argomento nell’approssimarsi alla Pasqua facendo riferimento alla situazione che stiamo vivendo.

Vorrei iniziare da una considerazione: perché non è stata spostata la data della Pasqua viste le condizioni in cui ci troviamo a celebrarla? Questa soluzione è stata proposta da varie parti e a suo favore stavano anche dei precedenti biblici. Una risposta autorevole è venuta da un Decreto della Congregazione del CDDS del 19 marzo scorso in cui si dice la celebrazione della Pasqua non può essere trasferita, perché non è una festa come le altre ed è preceduta dalla Quaresima e coronata dalla Pentecoste: è sempre stata celebrata la prima domenica dopo la prima luna nuova di primavera. Comunque a me sembra che questa scelta sia opportuna anche per motivi spirituali. Sono convinto che anche se non possiamo celebrare i riti della Pasqua con il popolo, proprio questo è il momento in cui noi cristiani dobbiamo celebrare la vittoria di Cristo sulla morte e annunciarla all’umanità. Spesso abbiamo denunciato l’incoerenza e la scarsa incisività di celebrazioni lontane dalla vita, oggi, proprio perché la dimensione rituale praticabile è ridotta all’essenziale, siamo chiamati tutti a fare della nostra vita il luogo della fede, una fede «nuda», privata dei segni e perfino della dimensione sacramentale, ma non per questo una fede meno profonda e autentica.

La situazione in cui viviamo sta mettendo alla prova la fede, quella della gente, ma anche la nostra di preti, religiosi/e, laici e ciò non solo perché ci mancano le celebrazioni e i sacramenti, ma perché siamo come assediati da una minaccia di morte. Per alcuni sperimentare la fragilità della nostra esistenza, vederla minacciata dal virus e scoprire il limite delle possibilità umane di controllare e sanare, può essere motivo per aprirsi a una dimensione ulteriore affidandosi a Dio. Per altri invece quanto sta accadendo può diventare la prova dell’irrilevanza di Dio, della sua assenza e della necessità di mettere le nostre speranze nella scienza, nella tecnica, nell’organizzazione.

Dobbiamo andare oltre agli aspetti pur importanti delle celebrazioni comunitarie sospese, per metterci davanti agli interrogativi che questa terribile prova fa nascere. Anche noi dobbiamo chiederci come la nostra fede è provocata dall’epidemia: questa situazione di pericolo, di morte, di vulnerabilità ci ha portati ad affidarci di più al Signore o ci ha allontanati da Lui?

Nel momento presente il nostro compito è quello di ravvivare la fede pasquale, la fede in una vita nuova che scaturisce dalla morte affrontata con amore e per amore in unione con la croce di Gesù. E’ significativo che l’insorgere e la fase più critica (almeno così speriamo) dell’epidemia sia coincisa con il tempo della quaresima e con la celebrazione della Pasqua.

Come scrive il Vescovo di Latina, mons. Mariano Crociata: «Senza panico e senza recriminazioni, dobbiamo lasciarci ispirare dal tempo liturgico di Quaresima e dal suo orientamento alla Pasqua di Cristo (…) per riscoprire che abbiamo bisogno non solo di salute e di benessere, ma di vita nuova e di un cuore nuovo che solo il Crocifisso-Risorto può rigenerare in noi; non dobbiamo far altro che inserirci nel solco del suo cammino terreno orientato a una pienezza che, attraverso la croce, trasforma l’umano dall’interno e lo conduce verso la glorificazione in Dio. Il segno di questa Quaresima spogliata di riti e di manifestazioni esteriori sta nella sua capacità di riportarci alle cose essenziali della nostra condizione e della nostra fede: la fragilità di fronte al male, il bisogno di reagire ad esso e di aiutarci per farlo, ma anche la potenza della morte e il bisogno di una salvezza che non si accontenta di guarire da una malattia, bensì annuncia e promette una vita piena dentro e oltre questa vita» (M. Crociata, Lettera ai presbiteri e ai diaconi nel tempo dell’isolamento per l’epidemia di Covid-19 16/03/2020, http://diocesi.latina.it/wd-doc-ufficiali/lettera-ai-presbiteri-e-ai-diaconi-nel-tempo-dellisolamento-per-lepidemia-di-covid-19-16-03-2020-latina/).

 

Vi propongo dal testo di Mt.14,22-32 il racconto di Gesù che cammina sulle acque e conforta i discepoli: secondo gli esegeti è un testo che a partire da un episodio vissuto dai discepoli in una traversata del lago, riecheggia l’esperienza della fede pasquale. E’ stato notato come questo racconto presenti della analogie con i testi degli incontri-apparizioni del Risorto ai discepoli: il dubbio unito alla fede (Mt 28,17 vs 14, 31), l’adorazione (Mt 28,9.17 vs 14,33), la paura di fronte alla manifestazione divina e l’invito a «non temere» (Mt 28.10vs 14,27). La professione di fede con cui si conclude il racconto, anticipa quella di Pietro a Cesarea di Filippo, ed è ripresa dal centurione e dalle guardie alla morte di Gesù sulla croce (Mt. 27,54). Possiamo quindi leggere questo brano come una guida a incontrare Gesù Risorto nella tempesta che si è abbattuta su di noi e sull’umanità.

La situazione di partenza è la separazione di Gesù dai discepoli: Gesù «costrinse» i discepoli a salire sulla barca e a precederlo sull’altra riva, di conseguenza si trovano soli al momento della tempesta, ma Gesù va loro incontro camminando sulle acque. Questo particolare –Gesù che cammina sulle acque – è ricco di richiami biblici: vari testi (Is. 43,16; 51,10; Sl 77,20-21; Gb 9.8-11; Sir 24,5) infatti ci presentano Dio come «colui che cammina sulle acque». In questo Dio si rivela da un lato come creatore e Signore dell’universo, dall’altro come salvatore (cf riferimento all’Esodo). Anche Gesù camminando sulle acque quindi si rivela ai discepoli Signore e Salvatore.

E’ bello pensare che Gesù viene incontro a noi nel mezzo delle tempeste della vita, proprio quando sembra assente: è lì dove tocchiamo la nostra fragilità e il nostro limite che Lui si rivela a noi come Signore e Salvatore. Anche la vicenda della pandemia che stiamo vivendo allora può essere un tempo favorevole per incontrare il Signore e per crescere nella fede in Lui: proprio in questa tribolazione ci è donata la possibilità di incontrarlo, di conoscerlo in modo nuovo, più profondo e vero.

Una seconda considerazione riguarda il passaggio dei discepoli dalla paura alla fede attraverso l’incontro con Gesù. Il racconto ci presenta un incontro in due momenti: prima tutto il gruppo vede Gesù e non lo riconosce finché lui non si rivela loro, successivamente è Pietro che dialoga con Gesù. La paura è menzionata tre volte ed è accompagnato dal dubbio che assale Pietro di fronte alle acque agitate dal vento. Sia per il gruppo dei discepoli che per Pietro, l’incontro con Gesù avviene attraverso un dialogo: è la parola che ci permette di riconoscere Gesù. C’è innanzitutto la parola di Gesù: «Coraggio, sono io, non abbiate paura» e c’è poi la parola di Pietro: «Signore, se sei tu, comandami di venire da te sulle acque».

Come possiamo oggi incontrare Gesù? Il brano che stiamo meditando ci invita a cercarlo nell’ascolto della sua Parola: non un ascolto passivo, ma un ascolto in cui ci mettiamo in gioco, ci coinvolgiamo e chiediamo di essere messi alla prova, come fa Pietro che chiede di poter essere reso partecipe del potere di Gesù di camminare sulle acque. Viene in questione qui la nostra preghiera: come stiamo pregando in questo tempo di coronavirus? E’ una preghiera che si nutre di ascolto di quanto il Signore ci sta dicendo con la Parola della Scrittura, ma anche con la vicenda dura e impegnativa che l’umanità sta attraversando? Come la mia preghiera può diventare un vero incontro con il Signore?

Vorrei notare che la parola di Gesù ai discepoli non ha solo una valenza psicologica: quante volte in questi giorni anche noi diciamo agli altri «coraggio». Comunque è un aiuto, un sollievo, un segno di amicizia e di vicinanza. In bocca a Gesù però questa parola ha un significato più profondo. «Coraggio, sono io, non abbiate paura» ha un valore innanzitutto religioso: è un invito alla fiducia fondata sulla presenza salvifica del Signore. In particolare l’espressione «Sono io» richiama l’autorivelazione di Dio a Mosé e a Isaia (Es. 3,14; Is.43,10-11; 44,6; 46,9). Credere qui significa molto di più di una conoscenza intellettuale: è un coinvolgimento di tutto se stessi, un mettersi in gioco lasciandosi alle spalle la paura. Tutto questo è possibile perché siamo in relazione con il Signore. Non siamo noi che vinciamo la paura. E’ avvertire la sua presenza ascoltando la sua parola che ci cambia il cuore.

La paura però non è vinta una volta per tutte: è l’esperienza di Pietro che messosi a camminare sulle acque rimane impressionato dalla forza del vento e comincia a dubitare e di conseguenza rischia di affondare. In Pietro vediamo la nostra situazione di discepoli che si sforzano di credere, ma nello stesso tempo dubitano. La condizione del credente è proprio questa: la fede convive con la paura, con il dubbio e l’incertezza, ma il discepolo ha sempre la possibilità, come Pietro, di gridare a Gesù il suo bisogno di salvezza: «Signore, salvami!».

Questo grido non rimane inascoltato: Gesù stende la sua mano e afferra quella di Pietro: un gesto umanissimo, che richiama molte immagini bibliche, specie nei salmi, in cui Dio appare come colui che stende la sua destra per salvare il misero che lo invoca.

E’ motivo di consolazione pensare che anche la fede di Pietro non è stata esente dal dubbio e dall’incertezza: possiamo anche noi riconoscere con umiltà la debolezza della nostra fede, non dobbiamo vergognarci se in questi giorni difficili ci siamo chiesti se per caso il Signore ci ha abbandonati e se abbiamo vissuto momenti di depressione e scoraggiamento. Una cosa dobbiamo imparare da Pietro ed è quella di rivolgerci al Signore con la poca fede che abbiamo: «Signore salvami!».

L’ultima parola di Gesù, che chiude il dialogo con Pietro, è un interrogativo, che nelle intenzioni dell’evangelista era rivolto anche alla sua chiesa, una chiesa che viveva una situazione di crisi: «Uomo di poca fede, perché hai dubitato?». La fede della Chiesa, in ogni tempo, è minacciata continuamente dalla paura e dal dubbio. E’ la presenza di Gesù con la sua parola e con i gesti salvifici che egli compie che fa uscire dalla crisi i discepoli e li fa approdare alla fede sicura della comunità credente (la barca dove Pietro sale insieme con Gesù e dove ritrova gli altri discepoli). Questa comunità, dopo aver attraversato la prova, scopre che Gesù è presente e lo riconosce Figlio di Dio (si prostrarono davanti a lui dicendo «Tu sei Figlio di Dio»).

L’insegnamento che possiamo ricavare da questo racconto evangelico è che passando attraverso la prova la nostra fede cresce e ci conduce a riconoscere in Gesù il Figlio di Dio, colui che ci apre l’accesso alla vita stessa di Dio. Ciò vale anche per la prova della pandemia che stiamo affrontando in questo periodo. Io mi auguro che anche per noi preti, religiosi/e, laici questa prova porti ad una fede più grande. Vivere la Pasqua quest’anno significa compiere anche noi questa traversata nella tempesta per incontrare Gesù, il Crocifisso Risorto e riconoscerlo come il Signore. La fede pasquale allora ci spingerà ad essere testimoni di speranza in un cammino che anche dopo la fine dell’epidemia si rivelerà difficile e tribolato.

Nel tempo che stiamo vivendo è chiesto alla Chiesa di vivere e testimoniare la fede in Cristo Risorto: questa è la sua missione. La nostra testimonianza tanto sarà credibile quanto più avremo condiviso in spirito di fraternità e di solidarietà il dramma e le sofferenze degli uomini e delle donne in mezzo ai quali viviamo. In questa prospettiva possiamo comprendere anche la scelta, sofferta, di limitare la vita ecclesiale, rinunciando a tutte le celebrazioni con la partecipazione del popolo, in un tempo come quello della Quaresima e della Pasqua è fondamentale.

Certamente questa scelta ha deluso chi pensa che la testimonianza del Vangelo esiga la difesa dei diritti della Chiesa ponendosi in contrapposizione con la società, creando delle isole in cui preservare la fede. Non ho difficoltà ad ammettere che in alcuni provvedimenti governativi la dimensione religiosa non è stata adeguatamente tenuta in considerazione, ma non è questo il punto. La scelta della Chiesa italiana, ma anche di tutte le altre chiese nazionali investite dall’epidemia, risponde invece ad un’altra preoccupazione, che è quella di andare alle sorgenti evangeliche della fede, per rendere credibile la testimonianza cristiana e rendere possibile un rinnovato impegno missionario. E’ questa la via che papa Francesco ci ha indicato fin dall’inizio del suo pontificato con l’Esortazione Evangelii Gaudium. Già ora ci sono dei segni che dicono come questa scelta stia pagando: lo avvertiamo nell’attenzione che la società pone alle parole del Papa e dei Vescovi, nel cordoglio che viene manifestato per la morte in seguito al coronavirus di tanti preti e religiosi.

Sentiamo spesso ripetere in questi giorni che dopo la pandemia non saremo più gli stessi: questo vale anche per la Chiesa. Possiamo pensare che quanto sta accadendo sia il punto di rottura che ci porterà ad attuare quel cambiamento profondo di cui sentiamo da tempo la necessità ma che ci fa paura e ci inquieta.

Nella tempesta di queste settimane il Signore sta passando per condurci all’altra riva: come Pietro e gli altri discepoli andiamo con fiducia incontro a lui, lasciamo che lui si riveli a noi e ci insegni a riconoscerlo come il Figlio di Dio.