La dimensione più vera ed autentica del Natale è religiosa: questa festa ha anche altri aspetti, che di per sé non sono negativi, quali un certo sentimentalismo (a Natale tutti ci sentiamo in dovere di essere più buoni!), lo scambio di regali, i cenoni e i pranzi, i brindisi, ma per vivere il Natale nella sua profondità abbiamo bisogno di incontrare il Signore Gesù, mettendoci in ascolto della sua Parola e lasciandoci toccare dalla sua persona.
In questa notte, celebrando la nascita nella carne del Figlio di Dio, noi celebriamo il mistero dell’amore di Dio, un amore che si manifesta non solo nel fatto che Dio si interessa di noi, ma nel modo in cui lo fa. Un grande pensatore cristiano, Kirkegaard, lo spiega con una storia: il Dio che si fa uomo è simile a quel re che voleva sposare una ragazza poverissima e di infime origini, Per non umiliarla si fece povero come lei. Per questo abbandonò le ricchezze e gli agi della sua reggia e si mise a fare il servo, arrivando così a coronare il suo sogno di amore. Scrive Kirkegaard a commento di questo apologo: “Questa è l’insondabilità dell’amore, il fatto di non diventare per scherzo, ma seriamente e veramente uguale all’amato… Ogni altro tipo di rivelazione sarebbe un’impostura per l’amore di Dio”. Intuiamo subito che questo modo di ragionare rovescia la nostra logica. Per noi è l’altro che deve diventare come noi: se vuoi che stia con te devi cambiare, devi diventare come me. E’ una logica che spinge alla competizione, che premia chi è più forte e più ricco e lascia indietro i deboli e i poveri. E’ una logica che produce “scarti” come usa dire Papa Francesco e che genera conflitti e divisioni.
Vivere il Natale nel suo senso profondo vuol dire allora confrontarsi con questa proposta alternativa, con questo principio di vita nuovo e diverso. Come abbiamo ascoltato nella seconda lettura dalla Lettera a Tito: “è apparsa la grazia di Dio, che porta salvezza a tutti gli uomini e ci insegna a rinnegare l’empietà e i desideri mondani e a vivere in questo mondo con sobrietà, con giustizia e con pietà, nell’attesa della beata speranza e della manifestazione della gloria del nostro grande Dio e salvatore Gesù Cristo”. L’incarnazione del Figlio di Dio porta con sé una chiamata per ciascuno di noi: si tratta di assumere la vita come compito-vocazione, la storia come responsabilità, la speranza del Regno come antidoto agli idoli che ci rendono schiavi.
Fare nostra la logica di Dio, accogliendo Gesù Cristo come nostro Salvatore e il suo Vangelo come criterio e guida delle nostre azioni, è decisivo non solo per la nostra esistenza ma anche per le vicende di questo nostro mondo tribolato, in particolare per la pace e la giustizia tra gli uomini. Quello che stiamo vivendo è un “Natale di guerra”: celebrare la nascita di Gesù in questo contesto vuol dire ravvivare la speranza di una pace “giusta”, una pace cioè che non nasca dall’annientamento di una delle parti in conflitto, ma dal riconoscimento reciproco dei diritti dell’altra parte e dalla riconciliazione. Gesù, come abbiamo sentito dal profeta Isaia nella prima lettura è il “Principe della pace”, è colui che ha il potere di spezzare «il giogo che opprime e il bastone dell’aguzzino», di bruciare «ogni calzatura di soldato che marciava rimbombando e ogni mantello intriso di sangue». Come risuonano nei nostri cuori queste espressioni del profeta: noi abbiamo bisogno di credere che Gesù è il Principe della Pace e seguendo lui possiamo costruire la pace e mettere fine alle tante guerre che insanguinano la terra.