Vorrei iniziare con due premesse:
- la prima riguarda un approccio diverso rispetto a quanto suggerito dalla domanda del moderatore che mi invita a dare una valutazione circa una serie di aspetti particolari. E’ un modo di affrontare le questioni morali a partire da un sì o un no (si può fare, non si può fare), che non rende ragione a pieno dell’esperienza morale. A me sembra invece più utile partire da una visione di fondo che può orientare le risposte da dare a situazioni complesse come quelle del fine vita. Non bastano ricette ponte all’uso, ma c’è bisogno di una sapienza, che ispiri il discernimento del bene vero delle persone. L’etica, non solo quella religiosamente ispirata, è un livello di conoscenza che va oltre la conoscenza tecnico-scientifica e che dobbiamo riscoprire se vogliamo affrontare in modo umano la morte.
- la seconda premessa: quanto andrò dicendo come espressione non solo della visione “cattolica” ma in senso più ampio “religiosa”. Mi sembra molto significativo a questo proposito ricordare la “Dichiarazione congiunta delle religioni monosteiste abramitiche” del 28 ottobre 2019.
Il punto di partenza è quindi una visione “religiosa”, una visione in cui l’uomo è creatura di Dio e di conseguenza non è il padrone assoluto della propria vita e della vita degli altri. Visione “religiosa” non vuol dire riservata solo ai credenti: rivela qualcosa dell’umanità che è accessibile a tutti. L’affermazione che l’uomo non è padrone assoluto della propria vita, non è esclusiva di chi crede, perché è verificabile anche razionalmente: è evidente che nessuno si è dato la vita da solo, l’ha ricevuta. Questo vale per l’inizio della vita (la nascita), ma anche per il fine vita. Di conseguenza «C’è una passività – ha scritto E. Jungel – senza di cui l’uomo non sarebbe umano. Di essa fa parte il fatto che siamo partoriti. Di essa fa parte il fatto che siamo amati. Di essa fa parte il fatto che moriamo».
Il progresso della scienza e della medicina ha portato a oscurare l’evidenza di queste considerazioni: i mezzi a nostra disposizione hanno reso possibile prolungare la vita anche in condizioni di grande precarietà e hanno suscitato domande in gran parte nuove circa l’opportunità e la liceità di prolungare oppure sospendere determinati trattamenti. A monte di questi interrogativi sta una domanda di fondo: come tutelare la dignità del morire? Il dibattito che ne è nato sembra muoversi tra i due estremi dell’accanimento terapeutico, per chi difende la indisponibilità della vita umana, e l’eutanasia (nelle sue varie forme –diretta e indiretta, attiva od omissiva – e con i suoi corollari come il suicidio assistito) per chi invece afferma il primato dell’autodeterminazione di ogni persona umana di fronte alla morte. Un filosofo (Jean-François Malherbe) descrive in questo senso l’accanimento terapeutico nell’ultima fase della malattia e l’eutanasia come «i due tentativi simmetrici di evitare l’incontro con la morte». La morte invece fa parte dell’esperienza umana e con essa dobbiamo riconciliarci, preparandoci a questo momento decisivo della nostra esistenza.
Nell’opinione pubblica la posizione della Chiesa può risultare appiattita sull’accanimento terapeutico, arroccata sulla difesa di un principio trascurando la condizione concreta delle persone. La proposta della Chiesa –qui cito Papa Francesco – è invece diversa. Propone per così dire una “terza via” e chiede di fare ricorso a “un supplemento di saggezza” per cercare il bene integrale della persona. La dottrina tradizionale (espressa già nel 1957 da Pio XII) enuncia il principio della «proporzionalità delle cure» ripreso recentemente da Papa Francesco (Messaggio alla World Medical Association del 7 novembre2017). Secondo tale principio «non c’è obbligo di impiegare sempre tutti i mezzi terapeutici potenzialmente disponibili e in casi ben determinati è lecito astenersene». Il criterio peculiare è «il risultato che ci si può aspettare, tenuto conto delle condizioni dell’ammalato e delle sue forze fisiche e morali» Consente quindi di giungere a una decisione che si qualifica moralmente come rinuncia all’ “accanimento terapeutico”».
Una precisazione va fatta a proposito dell’idratazione e nutrizione artificiali, che sono ordinariamente “sostegni vitali” e in quanto tali sono dovute al paziente: la loro sospensione non è moralmente lecita. Occorre riconoscere però che vi sono situazioni eccezionali in cui per le modalità della loro somministrazione possono acquisire la caratteristica di “atto medico” e rientrano quindi nel campo di applicazione del principio di proporzionalità.
Riporto un passaggio del citato messaggio di Papa Francesco che spiega il valore di questo criterio:
«È una scelta che assume responsabilmente il limite della condizione umana mortale, nel momento in cui prende atto di non poterlo più contrastare. “Non si vuole così procurare la morte: si accetta di non poterla impedire”, come specifica il Catechismo della Chiesa Cattolica (n. 2278). Questa differenza di prospettiva restituisce umanità all’accompagnamento del morire, senza aprire giustificazioni alla soppressione del vivere. Vediamo bene, infatti, che non attivare mezzi sproporzionati o sospenderne l’uso, equivale a evitare l’accanimento terapeutico, cioè compiere un’azione che ha un significato etico completamente diverso dall’eutanasia, che rimane sempre illecita, in quanto si propone di interrompere la vita, procurando la morte.
Certo, quando ci immergiamo nella concretezza delle congiunture drammatiche e nella pratica clinica, i fattori che entrano in gioco sono spesso difficili da valutare. Per stabilire se un intervento medico clinicamente appropriato sia effettivamente proporzionato non è sufficiente applicare in modo meccanico una regola generale. Occorre un attento discernimento, che consideri l’oggetto morale, le circostanze e le intenzioni dei soggetti coinvolti. La dimensione personale e relazionale della vita – e del morire stesso, che è pur sempre un momento estremo del vivere – deve avere, nella cura e nell’accompagnamento del malato, uno spazio adeguato alla dignità dell’essere umano. In questo percorso la persona malata riveste il ruolo principale. Lo dice con chiarezza il Catechismo della Chiesa Cattolica: «Le decisioni devono essere prese dal paziente, se ne ha la competenza e la capacità» (ibid.). È anzitutto lui che ha titolo, ovviamente in dialogo con i medici, di valutare i trattamenti che gli vengono proposti e giudicare sulla loro effettiva proporzionalità nella situazione concreta, rendendone doverosa la rinuncia qualora tale proporzionalità fosse riconosciuta mancante. È una valutazione non facile nell’odierna attività medica, in cui la relazione terapeutica si fa sempre più frammentata e l’atto medico deve assumere molteplici mediazioni, richieste dal contesto tecnologico e organizzativo»
Papa Francesco nell’applicazione di questo criterio della «proporzionalità delle cure» chiede si tenga conto di quello che definisce il «comandamento supremo» della «prossimità responsabile»:
«Si potrebbe dire che l’imperativo categorico è quello di non abbandonare mai il malato. L’angoscia della condizione che ci porta sulla soglia del limite umano supremo, e le scelte difficili che occorre assumere, ci espongono alla tentazione di sottrarci alla relazione. Ma questo è il luogo in cui ci vengono chiesti amore e vicinanza, più di ogni altra cosa, riconoscendo il limite che tutti ci accumuna e proprio lì rendendoci solidali. Ciascuno dia amore nel modo che gli è proprio: come padre o madre, figlio o figlia, fratello o sorella, medico o infermiere. Ma lo dia! E se sappiamo che della malattia non possiamo sempre garantire la guarigione, della persona vivente possiamo e dobbiamo sempre prenderci cura: senza abbreviare noi stessi la sua vita, ma anche senza accanirci inutilmente contro la sua morte. In questa linea si muove la medicina palliativa. Essa riveste una grande importanza anche sul piano culturale, impegnandosi a combattere tutto ciò che rende il morire più angoscioso e sofferto, ossia il dolore e la solitudine»
Nel Magistero di papa Francesco vi è un’insistenza particolare sul “prendersi cura” nella sua dimensione umana e relazionale, innanzitutto, ma anche in quella medica espressa in particolare nel ricorso alla cure palliative. Rientra in questo tipo di cura anche la sedazione profonda”, che è cosa ben diversa dall’eutanasia: è un intervento di cura che consiste nel diminuire o togliere la coscienza ad un malato con il suo consenso quando la sofferenza non può più essere controllata con le cure disponibili e vi è la prognosi di una morte imminente ed inevitabile. Questa insistenza si collega alla preoccupazione di combattere la “cultura dello scarto”: è quella concezione per la quale si risolve un problema scartando il soggetto che ne è portatore. Dare la morte o aiutare a raggiungerla sono due strade «sbrigative» di fronte a scelte «che non sono espressione di libertà, quando includono lo scarto del malato come possibilità», o una «falsa compassione» di fronte alla richiesta «di essere aiutati ad anticipare la morte».
Un’ultima considerazione vorrei riservarla al concetto di “autodeterminazione”, a cui si fa riferimento per giustificare in determinate situazioni, il ricorso all’eutanasia e l’aiuto a chi decide, in una situazione di grave sofferenza, di porre fine alla propria vita (“suicidio assistito”). Secondo questa concezione, la vita umana non ha quindi alcun valore intrinseco, ma solo un valore estrinseco, in quanto essa è il presupposto necessario per la realizzazione di altri valori e beni. Vale la pena tutelarla solo nella misura in cui essa è sperimentata come preziosa dalla persona interessata in base alle proprie idee. Il rispetto della sua autodeterminazione morale può addirittura rendere doveroso soddisfare il suo desiderio di morire. In altri termini la persona umana godrebbe di un’autodeterminazione “assoluta”, sciolta cioè da ogni relazione, quasi la persona fosse un atomo sufficiente a se stesso. In realtà sappiamo che la persona vive ed esercita la propria libertà dentro un contesto di relazioni: un’autodeterminazione assoluta è una chimera, mentre la libertà umana è sempre condizionata. Tanto più appare condizionata la decisione di darsi la morte di un paziente in fase terminale: in una società che riconosce la liceità del suicidio assistito una tale decisione potrebbe apparire come un dovere di “buona creanza” verso i viventi. La prassi clinica poi ci insegna che proprio in un avanzato stadio della malattia il desiderio di morire rappresenta spesso una comunicazione velata che, a un livello più profondo, intende dire qualcosa di diverso dal significato diretto delle parole adoperate.
Concludo sottolineando come la risposta alle grandi questioni del fine vita stia in un reale accompagnamento della persona. L’unica soluzione non è quella dell’eutanasia e del suicidio assistito. Una morte “concordata” ha comunque il sapore di una sconfitta, che depone le armi di fronte al compito di un’assistenza umana del moribondo, anziché di un aiuto reale per lui.