In queste settimane (e in modo particolare in questi ultimi giorni) siamo stati come «bombardati» da tanti messaggi: ognuno esprime il proprio parere, spesso per contraddire altri. I mezzi che abbiano a disposizione – i tanto nominati social – amplificano la diffusione delle tante parole che finiscono per confonderci e a non ci permettono di capire più dove stiamo andando e qual è il senso di quello che stiamo vivendo.
I brani della Scrittura che abbiamo ascoltato ci ricordano che c’è una Parola affidabile, che può indicarci una via sicura e che può darci vita: è la Parola di Gesù, il pastore che ci guida alla vita piena, la porta attraverso la quale passare per poter uscire verso un cammino di liberazione. Nella prima lettura, dagli Atti degli Apostoli, Pietro nel discorso fatto il giorno di Pentecoste, presenta il motivo per cui possiamo fidarci di Gesù: «Dio ha costituito Signore e Cristo quel Gesù che voi avete crocifisso». Sempre Pietro nel brano della sua prima lettera proposto come seconda lettura, dice «Eravate erranti come pecore, ma ora siete stati ricondotti al pastore e custode delle vostre anime». Infine nel Vangelo l’immagine del pastore è completata con il riferimento alla porta del recinto dove la notte veniva custodito il gregge. Gesù stesso spiega questa similitudine e la applica a se stesso.
Vorrei fermarmi con voi proprio sull’immagine della porta. Per comprenderla bisogna tenere presente che di notte il gregge veniva portato all’interno di un recinto, di solito fatto con grandi pietre poste l’una accanto all’altra, e con un’apertura da dove il pastore faceva entrare e poi uscire le pecore. Chi invece voleva fare del male alle pecore (i ladri e i briganti) non entrava dalla porta (dove vi era chi faceva la guardia), ma cercava di scavalcare il recinto. Gli esegeti fanno notare che l’evangelista Giovanni per il recinto non usi il termine più consueto nella lingua greca (èpaulis), ma una parola (aulé) che indica l’atrio del tempio di Gerusalemme. Per quell’atrio venivano fatte passare le pecore e gli altri animali destinati al sacrificio, tanto che vi era una porta era chiamata «porta delle pecore». Nell’episodio della cacciata dei mercanti dal tempio viene detto che dall’atrio del tempio Gesù spinse fuori i mercanti con le pecore e i buoi. Sempre dall’atrio del tempio venne cacciato fuori il cieco nato: Gesù accoglie quest’uomo rifiutato dal recinto di una religiosità chiusa che porta solo alla morte.
Questi riferimenti ci aiutano a capire le parole di Gesù: «Io sono la porta: se uno entra attraverso di me sarà salvato; entrerà e uscirà e troverà pascolo»: Lui spinge fuori le pecore dal recinto per condurle ad una relazione nuova con Dio, il Padre. Gesù infatti non conduce le pecore «dentro» verso il sacrificio, ma «fuori» verso una comunione con il Padre non più fondata su osservanze, precetti, fardelli pesanti da portare, ma su una reciproca conoscenza nell’amore. Solo il rapporto con Gesù quindi ci permette un cammino di libertà e di vita. Lui è la porta, perché è il pastore che ha dato la vita per noi: per questo possiamo ascoltare la sua voce, riconoscerlo e seguirlo donandogli la nostra vita. E’ questo rapporto di amore e di conoscenza reciproca che definiamo come vocazione: non soltanto una chiamata ad uno specifico stato di vita o ad un compito nella Chiesa, ma un modo di compiere le scelte fondamentali. Potremmo dire che per il cristiano è la vita intera che diventa vocazione, ovvero risposta alla voce del Signore che ci fa uscire «fuori» dal recinto dei nostri pensieri, delle nostre paure e delle nostre ambizioni autoreferenziali. Vita come vocazione non è sinonimo di autorealizzazione: è importante sottolineare come il pastore spinge fuori le pecore, le fa camminare, le porta verso la libertà e la vita, ma per strade che non hanno scelto loro.
Il Signore ci chiama attraverso gli eventi della nostra esistenza e della storia umana illuminati dalla Parola della Scrittura accolta nella fede. In questo senso anche l’esperienza che stiamo vivendo in questi mesi contiene una chiamata per noi come singoli e come comunità cristiana. Non dobbiamo pensare a Dio come a un regista che causa le catastrofi che colpiscono l’umanità o che, quantomeno, dietro le quinte se ne serve per i suoi scopi. Dentro la storia invece noi possiamo trovare un appello, una chiamata così come nella storia del popolo ebreo i profeti hanno scoperto un disegno di Dio e l’offerta di un’alleanza. Anche noi dobbiamo comprendere il linguaggio di Dio che ci parla dentro questo evento tremendo che è la pandemia. Dobbiamo fare opera di discernimento spirituale, provando a distaccarci dalle nostre paure e dai nostri desideri. Potremo scoprire allora il significato di alcuni segni che ci inquietano e ci sconcertano, come ad esempio il «segno delle chiese vuote». A questo proposito, un teologo che ha pubblicato una interessante riflessione su quello che la situazione creata dalla pandemia può dire alla Chiesa, scrive così: «Forse questo tempo di edifici ecclesiali vuoti mette simbolicamente in luce il vuoto nascosto delle Chiese, e il loro possibile futuro se non si compie un serio tentativo per mostrare al mondo un volto del cristianesimo completamente diverso. Abbiamo pensato troppo a convertire il ‘mondo’ (il ‘resto’) e meno a convertire noi stessi, che non significa un mero ‘migliorarci’, ma un radicale passaggio da uno statico ‘essere cristiani’ a un dinamico ‘divenire cristiani’» (Thomas Halik).
E’ una riflessione provocante, ma che può aiutarci. Mettiamoci in ascolto di quanto il Signore ci vuole dire, non abbiamo paura di lasciarci condurre «fuori» dal recinto: crediamo che Lui è la porta attraverso la quale dobbiamo passare, Lui è il Pastore che ci dona la vita in abbondanza.