Ci ritroviamo anche noi nell’ottavo giorno dopo la Pasqua a celebrare l’eucaristia e a rinnovare l’incontro con il Signore Risorto. Ogni anno ascoltiamo nella seconda domenica di Pasqua il brano del Vangelo di Giovanni, che narra due apparizioni di Gesù ai discepoli nel cenacolo, due apparizioni avvenute sempre nello stesso giorno della settimana, il primo, che i cristiani chiamano «domenica» cioè giorno del Signore. Quest’anno mi hanno particolarmente colpito le parole «erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei giudei»: ho sentito una profonda analogia tra la situazione dei discepoli e quella che stiamo vivendo in queste settimane. Anche noi siamo chiusi in casa per paura di un nemico invisibile, che ci assedia e ci impedisce di essere liberi di muoverci e di intrattenere relazioni con i nostri simili. Questo stare a porte chiuse nasce dalla paura: è interessante notare come il Vangelo di Giovanni parla spesso della paura (cf Gv 7.13; 9,22; 12,42) e ci mostra come il discepolo deve superarla per aprirsi alla fede e poter godere della pace e della gioia, che sono il dono del Cristo Risorto.
Gesù viene in mezzo ai suoi. È Lui che prende l’iniziativa: la sua venuta non è attesa né cercata, anzi per certi versi è sconcertante perché Gesù entra anche se le porte sono chiuse. Troviamo qui un messaggio che ci consola e ci incoraggia: Gesù viene incontro anche a noi, anche se siamo chiusi dentro le nostre paure.
L’incontro con Gesù porta i discepoli a passare dalla paura alla gioia: è questo l’itinerario della fede, che anche noi siamo chiamati a compiere oggi, proprio dentro agli eventi drammatici e imprevisti di questo tempo. In questo passaggio alla fede, che non è semplice né scontato, ci è di aiuto la figura di Tommaso, questo apostolo che di primo acchito non sembra fare una bella figura tanto, da essere indicato come esempio di incredulità. In realtà la sua vicenda è molto importante, perché ci fa capire che i nostri dubbi e le nostre resistenze non sono un impedimento alla fede, ma sono come i punti di appoggio con cui dobbiamo confrontarci per arrivare a riconoscere il Risorto che cammina accanto a noi. Come dice San Gregorio Magno «L’incredulità di Tommaso ha giovato di più alla nostra fede della fede degli altri discepoli».
Sono molti gli aspetti del testo biblico che potremmo commentare, ma vorrei fermarmi con voi questa sera su un dettaglio. Gesù invita Tommaso a toccare le ferite delle sue mani e del suo fianco. E’ importante evidenziare come anche nella precedente apparizione a tutto il gruppo dei discepoli Gesù si fa riconoscere mostrando le mani e il fianco, cioè i segni della passione. E’ significativo che il Risorto porti ancora i segni della passione: per la fede pasquale è determinate l’identità tra il Risorto che appare ai discepoli e il Crocifisso, tra il Gesù della vita terrena e il Cristo della fede. Le ferite delle mani e del fianco ci dicono però anche molto di più: ci ricordano che la risurrezione non è il lieto fine che cancella la passione e la morte; ci insegnano che Dio non ha salvato Gesù dalla passione e dalla morte, ma nella passione e nella morte. Tommaso alla fine fa la sua professione di fede: «Signore mio, Dio mio»: riconosce che Gesù è Dio, non un Dio qualsiasi, ma un Dio che ha sofferto, che ha patito, potremmo dire un Dio «ferito» che proprio per questo è un Dio compassionevole, un Dio che soffre per noi e con noi. Troviamo qui anche il motivo per cui questa domenica è dedicata alla divina misericordia.
L’invito di Gesù a Tommaso di toccare le sue ferite, ci offre un’indicazione preziosa per il nostro cammino di fede. Dove il Signore Risorto ci viene incontro per rivelarsi, per donarci la sua pace e farci passare dalla paura alla gioia? Per Tommaso la certezza della fede viene solo quando egli tocca Dio toccando le ferite del mondo – solo lì lo incontra. Egli sperimenta di nuovo proprio lì il suo incontro con il Cristo crocifisso. E’ questa una via che anche noi dobbiamo percorrere: il Cristo risorto si fa incontrare anche oggi nelle ferite del mondo: nei malati di covid, nell’angoscia di chi teme per la propria salute e per quella dei propri cari, nello smarrimento di chi si scopre improvvisamente privato del proprio sostentamento. Toccando le piaghe dei nostri fratelli possiamo arrivare alla fede. Il dolore e la sofferenza non sono la negazione di Dio. Scrive un autore contemporaneo: «Se il mondo fosse perfetto, sarebbe già Dio e non ci sarebbe più nessun problema riguardo a Dio. Un dio che guardasse narcisisticamente lo specchio senza macchie del suo mondo perfetto e del tutto armonioso in cui non ci fossero conflitti, né contraddizioni o misteri, non sarebbe il mio Dio, il Dio della Bibbia, il Dio della mia fede. La storia narrata dalla Bibbia non è un idillio affascinante, ma un dramma inquietante. Il mondo di cui parla la Scrittura (come il nostro mondo attuale) è un mondo di ferite sanguinanti e dolorose – e il Dio che invoca porta ugualmente queste ferite» (Thomas Halik).
Anche le chiese vuote di queste domeniche (speriamo di tornare presto ad abitarle tornando a celebrarvi fisicamente insieme l’eucaristia) sono in fondo un segno, per andare incontro al Crocifisso Risorto là dove Lui vuol farsi trovare da noi, discepoli impauriti e ancora increduli.