Il deserto è l’immagine che ci introduce nel tempo della Quaresima: il deserto infatti richiama i quarant’anni trascorsi da Israele nel deserto al tempo dell’Esodo e i quaranta giorni delle tentazioni di Gesù.. Nella Bibbia il deserto è il luogo dell’incontro con Dio: è nel deserto che Israele scopre Dio come un alleato potente ed è nel deserto che Gesù conferma il suo essere figlio di Dio.
Vivere la Quaresima è accettare di entrare nel deserto: è interessante osservare come il Vangelo di Matteo dice che Gesù fu condotto dallo Spirito nel deserto. Anche noi non scegliamo quando e come andare nel nostro deserto, ma ci siamo condotti, quando e come non vorremmo.
Il deserto non è solo una realtà simbolica, ma è un luogo di vita, un luogo che noi non ci siamo scelti, ma in cui veniamo condotti per fare esperienza di Dio. In questa prospettiva possiamo dire che anche l’inedita situazione che stiamo vivendo a causa dell’epidemia del coronavirus è il deserto in cui siamo stati condotti nostro malgrado. E’ una situazione che ci mette alla prova, perché sperimentiamo la nostra fragilità e debolezza come nel deserto l’ha sperimentata Gesù. Abbiamo ripetuto più volte in questi giorni che l’epidemia ci ha fatto scoprire la precarietà e la debolezza. Di fronte a questa constatazione siamo messi di fronte ad un bivio: cercare l’onnipotenza o accettare il nostro limite di creature per affidarci a Dio. Il diavolo propone a Gesù proprio la prima alternativa: per il tentatore essere Figlio di Dio vuol dire godere di una condizione di privilegio tale da poter fare tutto: moltiplicare i sassi in pane, buttarsi da un precipizio e non farsi mal, disporre a proprio piacimento di tutte le ricchezze di questo mondo. Per Gesù invece essere figlio di Dio significa esattamente il contrario: dipendere da Dio, obbedire a ogni sua parola, adorarlo e servirlo con tutta l’anima. Mentre il diavolo ragiona in termini di potere, Gesù invece si muove nell’ottica di un figlio, che si affida senza riserve al padre. Il combattimento di Gesù nel deserto ha riguardato l’immagine di Dio che il diavolo gli presentava.
La situazione che stiamo vivendo ci provoca a ripensare la nostra immagine di Dio, liberandola dalle incrostazioni dell’abitudine per ripensarla in termini filiali. Che cosa vuol dire credere in Dio Padre ai tempi del coronavirus? Significa innanzitutto rifiutare la tentazione di pretendere che Dio ci renda onnipotenti e invulnerabili, accettando invece di essere creature fragili e limitate, creature che proprio per questo sanno fidarsi di Dio anche nel dolore e nella sofferenza. Spesso se Dio non fa quello che ci aspettiamo, se non ci risolve i nostri problemi, siamo tentati di pensare che lui non si interessi di noi o che voglia punirci per qualche nostra colpa. Gesù ci fa conoscere un Dio diverso, un Dio che non interviene per salvare suo Figlio dal supplizio della croce, che non smentisce la derisione di chi sul Calvario dice a Gesù «Se sei Figlio di Dio scendi dalla croce», un Dio «tappabuchi», per usare l’espressione del grande teologo Bonhoeffer. Gesù vincendo le tentazioni del demonio ci insegna a cercare un Dio che, qualsiasi sia la situazione che viviamo, ci offre sempre la sua Alleanza per trasformare anche il dolore e la sofferenza in un dono di vita. E’ questo il Dio che siamo chiamati ad incontrare e a conoscere nel deserto di questa nostra strana Quaresima.