Iniziamo una Settimana Santa in cui per la prima volta in gran parte del mondo i riti e le celebrazioni dovranno svolgersi a porte chiuse, con i soli sacerdoti e qualche ministro. Spesso in passato ci siamo lamentati perché la liturgia ci sembrava staccata dalla vita, lontana dalle preoccupazioni e dalle aspettative che segnano le nostre giornate. Ora ci troviamo a vivere in una situazione che quasi ci costringe a mettere la nostra fede dentro la vita, cercando di dare un senso a questi giorni e settimane strani, che ci angosciano con il loro carico di sofferenza e di morte.
Viviamo anche la Domenica delle Palme con una liturgia povera, oserei dire «nuda» perché spogliata dei segni di festa che la caratterizzano. Più di qualcuno si sarà chiesto perché non viene benedetto e distribuito l’ulivo. In altra sede sono state spiegate le motivazioni sia liturgiche sia legate alla tutela della salute pubblica che hanno motivato questa decisione. Vorrei qui richiamare che tutti possiamo recuperare questo segno mettendo nelle nostre case un ramoscello d’ulivo o di altra pianta verde, leggere il vangelo dell’ingresso di Gesù a Gerusalemme e pregare insieme con i nostri familiari: questa preghiera varrà almeno quanto la benedizione del sacerdote! Non dobbiamo dimenticare però quello che i ramoscelli di ulivo richiamano. L’ulivo benedetto non è un «talismano» o un «amuleto» che ci ottiene la protezione divina, è un segno che ci invita ad accogliere Gesù e a seguirlo nel suo cammino di passione e morte per giungere con lui alla risurrezione. Accogliamo l’invito di un padre della Chiesa, S. Andrea di Creta, che così esortava i suoi fedeli: «Corriamo anche noi insieme a colui che si affretta verso la passione, e imitiamo coloro che gli andarono incontro. Non però per stendere davanti a lui lungo il suo cammino rami d’olivo o di palme, tappeti o altre cose del genere, ma come per stendere in umile prostrazione e in profonda adorazione dinanzi ai suoi piedi le nostre persone. (…) Stendiamo, dunque, umilmente innanzi a Cristo noi stessi, piuttosto che le tuniche o i rami inanimati e le verdi fronde che rallegrano gli occhi solo per poche ore e sono destinate a perdere, con la linfa, anche il loro verde. Stendiamo noi stessi rivestiti della sua grazia, o meglio, di tutto lui stesso poiché quanti siamo stati battezzati in Cristo, ci siamo rivestiti di Cristo (cfr. Gal 3, 27) e prostriamoci ai suoi piedi come tuniche distese» (sant’Andrea di Creta, vescovo, Discorso 9 sulle Palme; PG 97, 990-994).
Vivere la Settimana Santa vuol dire ripercorrere il cammino di Gesù dall’entrata in Gerusalemme fino alla sua morte sulla croce e alla sua sepoltura, in attesa di celebrare la sua risurrezione la notte di Pasqua. Nella Passione del Signore vediamo presenti tutti i dolori dell’umanità. In Gesù Cristo infatti Dio si è abbassato fino a prendere su di sé il dolore più grande fino alla morte. E’ questo il messaggio che ci viene dall’inno della lettera ai Filippesi: «Cristo Gesù, pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l’essere come Dio, ma svuotò se stesso assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini. Dall’aspetto riconosciuto come uomo, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce». I nostri dolori, la nostra sofferenza, la morte stessa non contraddicono Dio e il suo amore, come noi siamo portati a pensare seguendo una logica umana. La vicenda di Gesù ci rivela che invece sono il luogo dove Dio ci raggiunge per salvarci.
Il racconto di Matteo ci mostra come Gesù va incontro alla sua passione e alla sua morte come il Figlio obbediente del Padre, confidando in Lui anche nel momento in cui sperimenta l’abbandono e la solitudine. Il grido di Gesù sulla croce «Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato» (che è l’inizio di un salmo) non è espressione di un disperato ma è un grido di fede e di abbandono al Padre. In Gesù, percosso e umiliato, vediamo realizzarsi la figura del Servo di Jahvé descritto dal profeta Isaia: «Ho presentato il mio dorso ai flagellatori, le mie guance a coloro che mi strappavano la barba; non ho sottratto la faccia agli insulti e agli sputi. Il Signore Dio mi assiste, per questo non resto svergognato, per questo rendo la mia faccia dura come pietra, sapendo di non restare confuso».
In un tempo di grande dolore, dove ci sentiamo assediati dalla malattia e dalla morte, seguire Gesù nella sua passione ci può aiutare a dare un senso a quanto sta avvenendo: come Gesù anche noi possiamo accogliere quanto ci viene chiesto di affrontare affidandoci alla fedeltà del Padre, con la certezza che ogni nostro dolore e ogni nostra sofferenza non andrà perduta. Non abbiamo paura allora in questi giorni a seguire Gesù passo per passo, di immedesimarci in lui, di fare nostra la sua preghiera: così potremo scoprire che il Padre non ci abbandona. Se sapremo affidarci a Lui fino in fondo, come ha fatto Gesù, non saremo perduti.