Non è facile per noi oggi arrivare a cogliere la figura del nostro Patrono, il Vescovo San Bellino, nella concretezza della sua vicenda umana e religiosa. Il tempo che ci separa, quasi nove secoli, nonché la scarsità e l’incertezza delle fonti storiografiche, rischiano di consegnarci una figura che si perde nella leggenda e che ci attrae più per alcune consuetudini (cf i fiocchi rossi per i cani) che per la sua testimonianza di cristiano e di pastore.
Mi sembra pertanto importante partire dal dato storico che ci presenta un Vescovo vissuto nel XII secolo pienamente inserito nel movimento di riforma, che la Chiesa da parecchi decenni stava sforzandosi di realizzare. È quella che a scuola abbiamo studiato come la «riforma gregoriana» (dal Papa Gregorio VII che ne fu il rappresentante più significativo) collegata alla cosiddetta «lotta per le investiture», cioè dalla rivendicazione della Chiesa della propria libertà rispetto all’Imperatore e al potere secolare in genere. La radice di tale movimento però non era politica ma spirituale. L’obiettivo non era tanto quello di ottenere una posizione dominante nella società di allora, ma il desiderio di riportare la Chiesa alla sua purezza originaria, recuperando la forma della Chiesa delle origini, come esprime appunto il termine «riforma»: restituzione di una forma ritenuta originaria, l’apostolica vivendi forma. San Bellino nel suo ministero di Vescovo lottò strenuamente per la libertà della Chiesa e per il ritorno ad uno stile evangelico per la comunità cristiana e in particolare per il clero. Lo dimostra la sua attenzione ai poveri e il suo impegno per promuovere la vita comune tra il clero.
Questo dato storico ci aiuta a sentire San Bellino vicino a noi, vicino soprattutto alla vicenda ecclesiale di questi anni. Il tema della «riforma della Chiesa» infatti è molto attuale. Ci rendiamo conto che la vita ecclesiale come ci è stata consegnata non regge più e dobbiamo lavorare per dare alla nostra Chiesa una forma diversa, più evangelica e più missionaria, una forma che si richiami maggiormente alla prima comunità cristiana, alla Chiesa degli Apostoli . In questo senso va letto anche il cammino che Papa Francesco sta imprimendo alla Chiesa universale attraverso il Sinodo, di cui è appena terminata la prima sessione e che ha proprio questo obiettivo; dare alla Chiesa intera la forma di un popolo che cammina insieme seguendo la traccia di Cristo buon pastore.
Come San Bellino anche noi dobbiamo guardare avanti, interrogandoci su che cosa il Signore ci vuole dire attraverso la crisi che stiamo vivendo, che non è solo scarsità di preti, ma anche e forse ancora di più assenza dei cristiani, dispersione delle comunità, disaffezione dalla vita di fede. Dobbiamo tornare a ciò che è essenziale, accettando di cambiare le nostre consuetudini e le abitudini rassicuranti del passato, mettendo al primo posto l’impegno ad ascoltare e a vivere il Vangelo.
Per essere fedeli alla chiamata che il Signore ci fa non basta che ci sforziamo di tenere in piedi un’organizzazione ecclesiastica funzionale ad una situazione socioculturale che si è profondamente modificata, occorre che ci dedichiamo a ridare alla nostra Chiesa la forma della comunità che annuncia il Vangelo.
Il passaggio che abbiamo davanti ci spaventa e ci inquieta, soprattutto perché ci sembra di non avere riferimenti. Come Chiesa diocesana abbiamo però dei criteri che ci possono aiutare. Li abbiamo formulati qualche anno fa e mi sembrano sempre più attuali:
– «mai da soli»: è un altro modo per dire il carattere «sinodale» della vita ecclesiale; la riforma della Chiesa parte da qui, dall’accettare il confronto e il dialogo, anche faticoso, per riuscire a camminare insieme. Ricordiamoci che è sempre più fruttuoso attardarsi per condividere la strada che correre avanti da soli!
– «dare il sapore del Vangelo a tutto ciò che facciamo»: l’essenziale è il Vangelo e quindi ciò che conta veramente non è fare tante cose né il numero di persone che ci seguono, ma far sì che ciò che siamo e ciò che facciamo sia una buona notizia per quanti ci incontrano, cioè essere noi un Vangelo vivente
– «attenti all’ordinarietà della vita»: la Chiesa non è fine a se stessa, è per la salvezza del mondo e per questo deve essere vicina alla vita quotidiana, deve essere presente là dove le persone vivono, lavorano, soffrono.
Se ci sforzeremo di fare nostro lo stile di vita ecclesiale proposto da questi tre criteri, vedremo nascere una Chiesa rinnovata, più piccola ma più viva e credibile. Il nostro Patrono, che seppe essere fedele fino al dono della vita, interceda per noi e ci ottenga la grazia di vivere con fiducia e speranza questo tempo difficile e faticoso, ma allo stesso tempo aperto alle novità di Dio.