Anche quest’anno celebriamo la «Giornata del malato» in un ospedale: l’anno scorso infatti la celebrazione si è tenuta nell’Ospedale di Rovigo, oggi qui a Trecenta, in un ospedale che è a servizio di una parte importante del Polesine e che ha avuto un ruolo fondamentale durante la pandemia del Covid 19. La «Giornata del malato» è stata istituita da San Giovanni Paolo II nel 1993, che ha stabilito venisse celebrata ogni anno l’11 febbraio, memoria della prima apparizione della Madonna a Lourdes. L’obiettivo di questa giornata è di offrire un momento di preghiera e di condivisione per tutti gli ammalati e per coloro che se ne prendono cura, in primo luogo gli operatori sanitari. Abbiamo bisogno di questo momento, perché rischiamo di dimenticarci di chi è ammalato e anche di chi se ne prende cura: non basta che ce ne ricordiamo quando anche noi o i nostri cari siamo colpiti da qualche problema di salute o quando incontriamo qualche disservizio, è necessario invece avere un’attenzione costante, continua, perché il malato e chi lo cura ha bisogno anche della nostra «compassione». Chi è malato ha bisogno infatti non solo di medicine e di terapie, ma anche di relazioni: è questo il messaggio che in questa 32° Giornata mondiale del malato ci viene da Papa Francesco: «Curare il malato curando le relazioni».
La Parola di Dio che abbiamo ascoltato ci offre la possibilità di approfondire questo messaggio. Il Vangelo ci propone anche in questa domenica un racconto di guarigione: Gesù guarisce un lebbroso. La lebbra nell’antichità era una malattia che oltre a deformare il corpo, provocava l’isolamento sociale. Come abbiamo sentito nella prima lettura che riporta la legislazione di Mosé circa i lebbrosi, chi era affetto dalla lebbra doveva evitare qualsiasi relazione sociale, doveva vivere fuori dai luoghi abitati e avvertire della sua presenza quando qualcuno si avvicinava. Era inoltre considerato impuro e ciò comportava l’esclusione anche dal culto.
Nell’episodio riferito dal Vangelo di Marco, il lebbroso infrange la legge e si avvicina a Gesù: egli manifesta non solo il suo desiderio di essere guarito dal male fisico, ma anche il bisogno di essere in relazione, di rompere il suo isolamento. Gesù accoglie questo desiderio. Lo capiamo dalla modalità con cui compie il miracolo: non si limita a una parola, ma pone anche un gesto che è altamente significativo: «Tese la mano e lo toccò». Non è un gesto scontato: secondo la legge di Mosé non si poteva toccare un lebbroso, chi lo faceva veniva anche lui isolato ed escluso da tutti i rapporti sociali. Gesù mette al primo posto il bisogno di relazione del lebbroso: il suo tocco rompe l’isolamento, libera quest’uomo e gli ridà una nuova vita. Ciò che muove Gesù non è l’intenzione di trasgredire la legge, ma la compassione. È fondamentale per la comprensione di questo testo, evidenziare la reazione di Gesù alla richiesta del lebbroso: Gesù dice l’evangelista Marco «ne ebbe compassione». La guarigione fisica si colloca dentro questa guarigione sociale, umana. Compassione significa sentire il dolore dell’altro e decidere di farsene carico. È un sentimento forte, che va oltre quel senso un po’ negativo che ha nel linguaggio comune. Scrive a questo proposito un filosofo ebreo, Emmanuel Levinas «Il dolore isola assolutamente ed è da questo isolamento assoluto che nasce l’appello all’altro…. Non è la molteplicità umana che crea la socialità, ma è questa relazione strana che inizia nel dolore, nel mio dolore in cui faccio appello all’altro, e nel suo dolore che mi turba, nel dolore dell’altro che non mi è indifferente. È la compassione. Soffrire non ha senso, ma la sofferenza per ridurre la sofferenza dell’altro è la sola giustificazione della sofferenza, è la mia più grande dignità. La compassione, cioè etimologicamente “soffrire con l’altro”, ha un senso etico. È la cosa che ha più senso nell’ordine del mondo».
A questo punto possiamo cogliere in tutta la sua importanza l’invito del Papa nel suo messaggio per questa Giornata del malato: «la prima cura di cui abbiamo bisogno nella malattia è la vicinanza piena di compassione e di tenerezza. Per questo, prendersi cura del malato significa anzitutto prendersi cura delle sue relazioni, di tutte le sue relazioni: con Dio, con gli altri – familiari, amici, operatori sanitari –, col creato, con sé stesso. È possibile? Si, è possibile e noi tutti siamo chiamati a impegnarci perché ciò accada».
È un richiamo che oggi, rispetto al passato, assume una valenza tutta speciale: i progressi della medicina e i mezzi che la scienza ci mette a disposizione, sempre più orientano l’attività sanitaria in una prospettiva «tecnica», che rischia di portarci a dimenticare l’aspetto umano della cura. Il mio augurio e la mia preghiera per ammalati e per tutti coloro che se ne occupano nelle nostre strutture sanitarie, è che ci sia sempre spazio e attenzione per quella terapia di valore incommensurabile che è la «compassione», cioè partecipare e condividere la sofferenza del prossimo.