Anche se abbiamo abbandonato la consuetudine di un anno pastorale che ricalca
l’anno scolastico (sarebbe più opportuno semmai evidenziare la scansione del
tempo attraverso l’anno liturgico) comunque è un dato di fatto che questo momento
dell’anno segna un passaggio, non solo meteorologico, ma anche psicologico e di
conseguenza nel ritmo di vita e negli impegni. Rispetto al periodo estivo, durante
l’autunno, l’inverno e la primavera la vita pastorale ha ritmi e attività diverse se
non altro per una maggiore stabilità della nostra gente. Il nostro ritrovarci insieme
segna questo passaggio e ci aiuta a sentirci parte di un presbiterio e a condividere
alcune preoccupazioni e alcuni impegni.
Il primo punto che vorrei richiamare è la cura che dobbiamo avere di noi stessi,
come persone, come cristiani e come preti. Questa espressione «cura di sé» mi
sembra sia più incisiva di quella di «formazione permanente»: in fondo la
formazione permanente è uno strumento per evitare di trascurarci e di logorarci. La
parola «cura» dice attenzione e amore a se stessi; ci richiama a prendere tutte le
iniziative e le misure che mirano a impedire e a prevenire la demotivazione e il
logoramento nelle tre dimensioni della nostra umanità, del nostro essere cristiani e
infine del nostro essere preti. Questa parola ricorre anche nel testo della 1Timoteo,
quando Paolo esorta il suo discepolo e collaboratore dicendo «Abbi cura di queste
cose…» e specifica in che cosa consiste questa cura: «non trascurare il dono che è
in te…» e ancora «vigila su te stesso».
Quest’anno ci sentiamo sollecitati a riflettere su questo tema a partire anche dalla
vicenda, inattesa e per molti versi sorprendente viste le doti e l’impegno che ha
sempre manifestato, di un nostro confratello che ha chiesto di sospendere l’esercizio
del ministero, per poter affrontare il proprio stato di stanchezza e di demotivazione.
Abbiamo bisogno come presbiterio di elaborare questa vicenda, non limitandoci al
pettegolezzo o alla curiosità, ma cercando di cogliere l’insegnamento che ci viene
anche da questa vicenda. Non mi sembra corretto entrare a trattare della situazione
specifica, ma piuttosto è opportuno prendere spunto da questo caso, che ci ha colpiti
tutti, per fare una riflessione che possa aiutarci a elaborare in positivo lo sconcerto
e la sorpresa di questa decisione. Vi prego quindi di non interpretare le mie parole
con riferimento alla vicenda personale del nostro confratello.
Nelle crisi ci sono tanti fattori: alcuni sono legati a dimensioni costitutive della
persona (pensiamo alle crisi causate da un esaurimento psicofisico, da
problematiche affettive o psicologiche), ma ce ne sono altri che dipendono dalle
varie fasi storiche della vita della Chiesa e del suo rapporto con la società. C’è stato
il periodo del ’68, coinciso con l’immediato postconcilio, in cui ad esempio è stata
determinante la ricerca della novità e l’influsso dell’ideologia marxista. A me
sembra che in questo momento storico ciò che pesa maggiormente è lo scontro con
la disaffezione dalla vita cristiana e la mancanza di riscontri: ti dai da fare, proponi
iniziative, cerchi metodi pastorali nuovi, ma non hai risposte. In questa situazione
è facile che venga meno la gioia del Vangelo e quindi si arrivi a smarrire quello che
è il cuore della nostra vocazione e della nostra missione.
Di fronte alla situazione che stiamo vivendo è forte la tentazione di rassegnarsi e di
rinchiudersi nel pessimismo per il quale tutto è inutile, oppure, con una reazione di
segno contrario, pensare che moltiplicando gli sforzi e le iniziative si riesca a
vincere l’indifferenza e la lontananza della nostra gente. In questa prospettiva è
forte l’illusione di superare i problemi andando alla ricerca di un facile consenso,
oppure rispondendo ad esigenze di pura socializzazione con iniziative che, pur
avendo una «vernice» religiosa, rimangono in superficie e non toccano in
profondità la vita delle persone.
In Evangelii Gaudium (nn. 76-109) Papa Francesco descrive queste risposte non
adeguate al «deserto spirituale» in cui ci troviamo a vivere il nostro ministero: parla
di «pessimismo sterile», di «accidia egoista», di «mondanità spirituale» e conclude
con una raccomandazione accorata: «non lasciamoci rubare la gioia di
evangelizzare». Interessante è la spiegazione che dà di questa sua raccomandazione:
«La gioia del Vangelo è quella che niente e nessuno ci potrà mai togliere (cfr Gv
16,22). I mali del nostro mondo – e quelli della Chiesa – non dovrebbero essere
scuse per ridurre il nostro impegno e il nostro fervore. Consideriamoli come sfide
per crescere. Inoltre, lo sguardo di fede è capace di riconoscere la luce che sempre
lo Spirito Santo diffonde in mezzo all’oscurità, senza dimenticare che «dove
abbondò il peccato, sovrabbondò la grazia» (Rm 5,20). La nostra fede è sfidata a
intravedere il vino in cui l’acqua può essere trasformata, e a scoprire il grano che
cresce in mezzo della zizzania».
Mi sembra che l’elemento centrale che fa la differenza e ci fa gustare la gioia del
Vangelo è lo sguardo di fede: qui ci viene indicato l’antidoto per affrontare la crisi
che nasce dal sentirci immersi in un «deserto spirituale». Vorrei far notare che non
si parla semplicemente di fede, ma di uno «sguardo di fede», cioè della capacità di
leggere e interpretare con la fede il tempo che stiamo vivendo per coglierne non
solo le difficoltà, ma anche le opportunità. Papa Francesco sviluppa questo concetto
citando un’omelia di Benedetto XVI: «è proprio a partire dall’esperienza di questo
deserto, da questo vuoto, che possiamo nuovamente scoprire la gioia di credere, la
sua importanza vitale per noi, uomini e donne. Nel deserto si torna a scoprire il
valore di ciò che è essenziale per vivere; così nel mondo contemporaneo sono
innumerevoli i segni, spesso manifestati in forma implicita o negativa, della sete di
Dio, del senso ultimo della vita. E nel deserto c’è bisogno soprattutto di persone di
fede che, con la loro stessa vita, indichino la via verso la Terra promessa e così
tengono viva la speranza».
Le parole di Papa Benedetto ci richiamano le espressioni di Paolo a Timoteo:
«Allenati nella vera fede…».
Questo «sguardo di fede» non è scontato, anche se siamo uomini che credono, che
pregano, che amano Dio. Ci vuole un passo ulteriore: leggere la storia con gli occhi
di Dio, come hanno fatto i profeti di ieri e di oggi e qui dobbiamo confessare la
nostra debolezza e la nostra fatica. Non credo ci manchi la generosità o la bontà
d’animo, mi chiedo invece se abbiamo questa capacità di vedere la luce oltre
l’oscurità, il vino in cui l’acqua può essere trasformata (per riprendere le espressioni
di Evangelii Gaudium). Ci serve una fede «intelligente», che cioè sa leggere in
profondità gli eventi e le situazioni del mondo di oggi (cf intus = dentro): una fede
che riflette, che pensa, che studia e si confronta. Si prevengono e si affrontano le
crisi anche con qualche buona lettura, condivisa con confratelli e altri fedeli:
sarebbe interessante interrogarci su quali sono gli ultimi libri che abbiamo letto e
quali riviste di teologia e di pastorale seguiamo.
Curare questo «sguardo di fede» non può essere solo opera individuale, ma è
necessario uno sforzo condiviso, innanzitutto nel presbiterio e poi anche con i fedeli
laici, che ci possono aiutare con le loro competenze. Gli strumenti a disposizione
sono numerosi e facilmente accessibili. Come Diocesi offriamo dei momenti di
approfondimento e di riflessione: vi verrà presentato fra poco il programma
preparato dalla commissione per la formazione. Sono strumenti che hanno bisogno
anche delle vostre idee e delle vostre proposte per poter essere efficaci e
coinvolgenti. Occorre però la decisione di farne uso, uscendo da quella che il Papa
definisce «accidia egoista».
Quello che vi ho proposto è solo un mio punto di vista che non esaurisce
naturalmente tutti i motivi di crisi: ho cercato di evidenziare quello che a mio avviso
sento più forte e pericoloso in questo momento della vita della Chiesa.
Quanto ho detto finora si collega anche a un aspetto che vorrei caratterizzasse la
prossima visita pastorale. Accanto ai momenti più consueti e collaudati
(celebrazione della messa nelle varie comunità, incontro con i consigli pastorali e
affari economici, visita agli anziani e ammalati) vorrei infatti fare delle esperienze
di annuncio del Vangelo assieme alle comunità che visiterò, proprio per scoprire la
«gioia di evangelizzare»..
Il punto fondamentale infatti è avviare il passaggio da una comunità ecclesiale
ripiegata su se stessa e preoccupata dell’«autoconservazione» ad una comunità «in
uscita», che va incontro agli uomini e alle donne per rendere possibile l’annuncio e
l’accoglienza del Vangelo. Per fare questo, accanto ai momenti tradizionali di una
visita pastorale prevedo di attuare dei momenti di incontro con persone che stanno
sulla «soglia», o, per usare l’immagine suggerita dal Vangelo della Samaritana,
«vicino al pozzo».
Chi sono gli uomini e le donne che stanno sulla «soglia» o «vicino al pozzo»? Per
spiegarlo parto dalla testimonianza di un fisico ateo (Carlo Rovelli) resa dopo la
visita del Papa a Verona:
«Il Papa è venuto in visita nella mia città. Con mio stupore, ne sono stato felice. Su
queste pagine, questo apparirà forse come un commento banale. Non lo è per me:
sono cresciuto guidato da valori che mi sembravano lontani da quelli della Chiesa.
Non sono mai stato credente, e non lo sono neanche oggi. Ma il mondo è cambiato,
forse io sono cambiato, forse la Chiesa è cambiata, e oggi mi sento con stupore
vicino alla Chiesa, alla sua guida morale, come non avrei mai creduto potesse
diventare possibile. E credo, lo dico sottovoce, che siano oggi in molti, che erano
molto lontani dalla Chiesa, a sentirsi così»
Ci sono molte persone che oggi si fanno delle domande: la pandemia, prima, la
guerra, i cambiamenti climatici hanno reso molti pensosi (anche i ragazzi e i giovani
non sono più quelli di qualche anno fa…). Sentono il desiderio di essere ascoltati e
sono disponibile a intavolare un dialogo, un confronto con qualcuno che possa
aiutarli a trovare delle risposte (attenzione: non qualcuno che dà le risposte, ma che
si fa compagno in questa ricerca…). Sempre dalla stessa testimonianza prendo un
altro passaggio, in cui l’Autore mette in evidenza la capacità del Papa di ascoltare
le domande presenti nei suoi interlocutori e di dare voce ad esse:
«Eravamo tanti sabato nell’Arena di Verona, a cercare gli uni negli altri la forza
del sogno di un mondo migliore. Il Papa era in mezzo a noi, con il suo consiglio e
la sua parola che arriva forte a tanti cuori. Non è la prima volta che questo Papa
mi stupisce. L’ho incontrato brevemente anni fa, in occasione di una conferenza
scientifica a Castel Gandolfo. Allora il nemico di turno dell’Occidente era l’Islam,
io provai a suggerire al Papa di essere più esplicito con il suo popolo,
nell’esortarlo a non considerare i musulmani come nemici. Con mio stupore, lo
fece pubblicamente qualche giorno dopo. E quando ho cercato — ahimé senza esito
alcuno —, raccogliendo l’appoggio di colleghi di scienza, di promuovere l’idea di
un possibile negoziato globale per un disarmo bilanciato, che libererebbe un
colossale dividendo di pace con sui potremmo insieme risolvere la miseria estrema
e coprire i costi dei rimedi al riscaldamento climatico, il Papa ci espresse il suo
sostegno».
«Da ragazzo volevo cambiare il mondo, sognavo un mondo più giusto, sognavo
abolire privilegi, confini, eserciti, sfruttamento. La Chiesa mi sembrava uno degli
ostacoli. Ora non più, e il Papa lo sento, con stupore, in un mondo sempre più cieco,
come un saggio fratello maggiore».
Per poter incontrare uomini e donne «della soglia» o «vicini al pozzo» è necessaria
una postura diversa rispetto a quella tradizionale che consiste nel chiamare,
nell’invitare a entrare in un recinto: è necessario invece andare noi fuori, entrando
nella vita di questi fratelli e sorelle, facendo loro spazio attraverso un ascolto senza
pregiudizi. Il teologo Theobald esprime questo atteggiamento con il termine
«ospitalità». Chi si sente accolto a ascoltato ritorna, perché accoglienza e ascolto
creano una relazione, che rende possibile l’annuncio del Vangelo.
Questa postura si realizza anche attraverso luoghi e modalità specifici, che siano
legati alla vita quotidiana (cf il pozzo).
Non si tratta però solo di condividere la vita: questo lo abbiamo fatto e lo facciamo
da sempre, tanto che spesso la dimensione della socializzazione prende il
sopravvento anche su quella più specificatamente religiosa. Il cambiamento
decisivo è quello di riuscire a intercettare le domande profonde (domande di senso)
presenti nella vita delle persone e impostare un dialogo su di esse, in cui diventa
possibile dire la nostra fede nel Signore Gesù.
Tornando alla Visita pastorale, la sfida è quella di costruire insieme con le comunità
visitate delle esperienze di incontro di questo tipo. Non si tratta di organizzarle per
il Vescovo, ma di costruirle e viverle insieme con lui. Il primo passaggio allora sarà
quello di individuare in loco chi accompagna il Vescovo condividendo in modo
attivo l’incontro e il dialogo. In questo lavoro vi sarà la possibilità di sperimentare
un coinvolgimento insieme di persone del territorio visitato e di altri che vengono
dal centro Diocesi (la “Casa della Diocesi”), formando delle equipe miste con le
quali sperimentare anche un nuovo stile di rapporti tra «centro» e «periferia»
Questa esperienza dovrebbe poi diventare generativa, mostrando uno stile da
continuare per rinnovare la Chiesa e l’azione pastorale.
Concludo con qualche notizia relativa alla vita della nostra Chiesa diocesana:
– Innanzitutto una bella novità: iniziano in questi giorni l’anno propedeutico
al Seminario due giovani. L’anno propedeutico è un tempo di discernimento
e di introduzione. Lo trascorreranno nel nostro Seminario frequentando il
1° anno di Teologia alla Facoltà di Padova. Per il prosieguo della
formazione siamo in attesa di capire che cosa riusciremo a maturare con le
vicine Diocesi di Padova, Vicenza e Chioggia: ci rendiamo conto che c’è
bisogno di una comunità formativa più grande di quella che possiamo offrire
con i nostri piccoli numeri. Vediamo in questi due giovani il frutto del
lavoro che è stato fatto negli ultimi anni, dando alla pastorale giovanile un
taglio vocazionale. Sia un motivo per seguire e accompagnare i ragazzi e i
giovani sensibili, indirizzandoli a partecipare alle iniziative diocesane dove
possono condividere con altri giovani la loro sensibilità.
– E’ in corso il trasloco della Curia diocesana nell’area del Seminario, più
precisamente nel 2° piano dell’Angelo Custode. Non è solo un cambiamento
logistico, ma dovrebbe portare ad un diverso modo di lavorare degli uffici
e servizi diocesani che faccia sperimentare in concreto il sogno di una chiesa
che sia casa per tutti. L’auspicio è che ciò sia di stimolo e di provocazione
per tutta la Diocesi.
– Quanto all’edificio del Vescovado, ci sono buone prospettive perché possa
servire per un uso socio-assistenziale e possa allo stesso tempo essere fonte
di reddito per la Diocesi.
– Ho accettato la richiesta di don Carlo Santato di essere sollevato
dall’incarico di Delegato Vescovile per la formazione. Lo ringrazio per il
lavoro fatto con intelligenza e passione in questi anni. Gli subentra con
l’incarico di “coordinatore della commissione diocesana per la formazione”
don Luca Borgna: anche a lui va il mio grazie per la disponibilità a spendersi
anche su questo fronte.
– Per il Giubileo, abbiamo programmato un pellegrinaggio diocesano: chiedo
alle parrocchie di partecipare. Il programma è di tre giorni a fine giugno (o
più probabilmente ai primi di luglio): nei prossimi giorni sarà pronto il
programma.
+Pierantonio Pavanello