Un primo pensiero è di apprezzamento e di ringraziamento:
- apprezzamento innanzitutto per chi ha iniziato questa esperienza vent’anni fa: don Carlo Santato e chi insieme con lui ha cominciato a trovarsi per costruire un percorso che allora si presentava incerto e non capito
- grazie non solo perché nel corso del tempo il Gruppo Emmaus è diventato un segno di una Chiesa che accoglie e accompagna chi vive la sofferenza della separazione e il divorzio, ma anche perché ha aiutato la nostra Chiesa diocesana a maturare un cambiamento di prospettiva e una sensibilità diversa verso le situazioni delle coppie e delle famiglie ferite.
Personalmente la caratteristica principale che colgo nel vostro gruppo è quella di essere uno spazio in cui le persone e le coppie si sentono accolte, ascoltate e accompagnate. Per la mia esperienza, maturata nell’ascolto di tante situazioni diverse, mi sento di dire che la cosa più importante per chi esce dal fallimento di un matrimonio è proprio questa: sentirsi accolto, ascoltato, accompagnato.
Il cambiamento avvenuto (ma non ancora compiuto!) nella Chiesa ha riguardato proprio il passaggio da un atteggiamento di giudizio a quello dell’accompagnamento, richiesto e promosso da Papa Francesco con l’Es. Ap. Amoris Laetitia (d’ora in poi AL), ma iniziato già prima almeno a partire dall’Es. Ap. Familiaris Consortio di Papa Giovanni Paolo II (1981), dove per la prima volta in un documento pontificio si parla dell’accompagnamento e della cura pastorale di separati e divorziati. Papa Francesco con molta chiarezza dice che non dobbiamo giudicare: «La strada della Chiesa è quella di non condannare eternamente nessuno; di effondere la misericordia di Dio a tutte le persone che la chiedono con cuore sincero […]. Perché la carità vera è sempre immeritata, incondizionata e gratuita!”. Pertanto, “sono da evitare giudizi che non tengono conto della complessità delle diverse situazioni, ed è necessario essere attenti al modo in cui le persone vivono e soffrono a motivo della loro condizione”» (AL n. 296).
IL cap. VIII di Amoris Laetitia ruota attorno a tre verbi, che troviamo richiamati già nel titolo: «accompagnare, discernere e integrare la fragilità». Vorrei sottolineare non solo i tre verbi, ma anche l’oggetto: la fragilità, non persone che hanno sbagliato o che sono peccatori, ma una condizione di fragilità che è comune a tutti.
Il passaggio dall’atteggiamento del giudizio a quello dell’accompagnamento non comporta che ognuno decida in maniera soggettiva ciò che è bene e ciò che è male. In particolare rimane il valore del matrimonio, che nel disegno di Dio e nella vocazione cristiana ha un posto importante: «Il matrimonio cristiano, riflesso dell’unione tra Cristo e la sua Chiesa, si realizza pienamente nell’unione tra un uomo e una donna, che si donano reciprocamente in un amore esclusivo e nella libera fedeltà, si appartengono fino alla morte e si aprono alla trasmissione della vita, consacrati dal sacramento che conferisce loro la grazia per costituirsi come Chiesa domestica e fermento di vita nuova per la società. Altre forme di unione contraddicono radicalmente questo ideale, mentre alcune lo realizzano almeno in modo parziale e analogo. I Padri sinodali hanno affermato che la Chiesa non manca di valorizzare gli elementi costruttivi in quelle situazioni che non corrispondono ancora o non più al suo insegnamento sul matrimonio» (AL n. 292).
Accompagnare vuol dire tenere conto di un cammino che ogni cristiano deve fare per arrivare a vivere la sua chiamata alla santità, radicata nel battesimo. Da una prospettiva statica (fissare chi è conforme e chi invece non lo è rispetto ad un traguardo) ad una dinamica, cioè ad un cammino che ci viene proposto perché Dio ci ama e nonostante i nostri errori e le nostre debolezze continua a volere il nostro bene.
Accompagnare significa condurre persone e coppie a discernere. Discernimento è «prendere coscienza della propria situazione di fronte a Dio»: punto di partenza è sentire che Dio mi ama; alla luce di questo amore comprendere se e dove ho mancato (attenzione a non confondere il peccato con il senso di colpa!); chiedersi quali passi il Signore mi chiede di fare.
Il discernimento ha una dimensione personale: è un’operazione della coscienza. E’ qualcosa a cui io arrivo mettendomi davanti a Dio, non è qualcosa che mi viene proposta o imposta dall’esterno. Per questo non c’è un’indicazione uguale per tutti o una migliore di un’altra. Ad es. c’è chi è chiamato alla fedeltà al matrimonio fallito, come c’è chi invece sente che il maggior bene possibile è una nuova unione. Pertanto dobbiamo evitare di giudicare: non è compito nostro, lasciamo a Dio il giudizio che è sempre segnato dalla misericordia.
Il carattere personale del discernimento non esclude però la necessità di un confronto con altri: la coscienza infatti deve essere formata e illuminata. Molto importante è il confronto con una guida spirituale: un sacerdote, ma anche un fedele laico/a maturo nella fede («laici dediti al Signore” [AL n. 312]). Questo confronto deve aiutare a distinguere tra le diverse situazioni e a valutare le circostanze attenuanti circa la responsabilità sul fallimento del matrimonio. Non si tratta solo di misurarsi su una norma generale e astratta: «E’ meschino soffermarsi a considerare solo se l’agire di una persona risponda o meno a una norma generale, perché questo non basta a discernere e ad assicurare una piena fedeltà a Dio nell’esistenza concreta di un essere umano» (AL n. 304). «Il discernimento deve aiutare a trovare le strade possibili di risposta a Dio e di crescita attraverso i limiti. Credendo che tutto sia bianco o nero, a volte chiudiamo la via della grazia e della crescita e scoraggiamo percorsi di santificazione che danno gloria a Dio. Ricordiamo che “un piccolo passo, in mezzo a grandi limiti umani, può essere più gradito a Dio della vita esteriormente corretta di chi trascorre i suoi giorni senza fronteggiare importanti difficoltà”» (AL n. 305).
Il discernimento dovrà poi portare a formulare un giudizio corretto su ciò che ostacola una più piena integrazione nella vita della Chiesa e i passi da fare per poterla realizzare (AL n. 300).
Il discernimento infatti dovrebbe portare a sentirsi parte nella Chiesa e trovare il proprio posto dentro la comunità cristiana: il terzo verbo del cap. VIII è «integrare». A questo proposito Papa Francesco afferma: «La logica dell’integrazione è la chiave del loro accompagnamento pastorale, perché non soltanto sappiano che appartengono al Corpo di Cristo che è la Chiesa, ma ne possano avere una gioiosa e feconda esperienza. Sono battezzati, sono fratelli e sorelle, lo Spirito Santo riversa in loro doni e carismi per il bene di tutti. La loro partecipazione può esprimersi in diversi servizi ecclesiali: occorre perciò discernere quali delle diverse forme di esclusione attualmente praticate in ambito liturgico, pastorale, educativo e istituzionale possano essere superate. Essi non solo non devono sentirsi scomunicati, ma possono vivere e maturare come membra vive della Chiesa, sentendola come una madre che li accoglie sempre, si prende cura di loro con affetto e li incoraggia nel cammino della vita e del Vangelo. Questa integrazione è necessaria pure per la cura e l’educazione cristiana dei loro figli, che debbono essere considerati i più importanti» (AL n. 299).
Avviandomi alla conclusione vorrei toccare il tema dell’accesso ai sacramenti. Vorrei far notare che questa questione non si risolve con un sì o un no. La risposta è complessa ed articolata e non può essere data come regola generale.
La Chiesa continua ad insegnare che c’è una incompatibilità (incompatibilità «oggettiva») tra la situazione di chi vive una relazione di coppia di tipo matrimoniale (more uxorio) e la comunione eucaristica. Il matrimonio e l’eucaristia sono due segni visibili che rendono presente l’unione di Dio con l’umanità (le «nozze») con l’umanità. Chi di fatto si mette in contraddizione con il segno del matrimonio instaurando una nuova unione, contraddice anche il segno dell’eucaristia. Da sottolineare che questa «oggettiva» incompatibilità non coincide con una condizione di peccato «soggettivo». Di conseguenza una nuova unione di per sé non costituisce sempre una situazione di peccato grave: «Per questo non è possibile dire che tutti coloro che si trovano in una situazione cosiddetta “irregolare” vivano in stato di peccato mortale, privi della grazia santificante» (AL n. 301).
Il cap. VIII di AL quindi insegna a tenere conto anche dell’esigenza (dimensione «soggettiva») dei fedeli di ricevere i sacramenti. Fino ad Amoris Laetitia prevaleva sempre la dimensione oggettiva. L’unica via che apriva l’accesso ai sacramenti era la dichiarazione di nullità del matrimonio: era necessario dimostrare che il primo matrimonio era nullo per un vizio del consenso e dopo la dichiarazione del Tribunale Ecclesiastico si poteva contrarre un nuovo matrimonio sanando la situazione irregolare. Nel cap. VIII troviamo una nuova possibilità: la c.d. via della coscienza o del discernimento. Attraverso un percorso di discernimento, seguito da una guida spirituale, un fedele cerca di comprendere la volontà di Dio sulla propria vita e sulla propria situazione matrimoniale. In questo percorso si può anche arrivare a decidere di accedere ai sacramenti (AL n. 305 nota 41). E’ una soluzione di coscienza e pertanto, a differenza della dichiarazione di nullità, non può essere fatta valere nel c.d. «foro esterno». Ciò comporta ad esempio l’attenzione ad evitare lo scandalo nella comunità, che a sua volta deve essere sensibilizzata a rispettare le scelte compiute in coscienza e a non assumere atteggiamenti di giudizio e di discriminazione.
+Pierantonio
Rovigo, Centro Mariano, 27 ottobre 2024