Il venerdì santo è con il sabato santo, l’unico giorno in cui la Chiesa non celebra l’eucaristia: per questo la liturgia a cui stiamo partecipando è detta «azione liturgica». In questo giorno infatti siamo chiamati a contemplare il sacrificio di Cristo sulla Croce, di cui l’eucaristia è il memoriale. In altri termini siamo portati oltre il sacramento alla realtà che è significata, andando alla sorgente da cui l’eucaristia scaturisce in modo da comprenderne il significato autentico e pieno. La liturgia ci guida a vivere questa sosta contemplativa attraverso l’ascolto del racconto della Passione secondo Giovanni e poi, tra poco, nella adorazione della Croce.
La morte di Gesù sulla Croce è unica: nella storia dell’umanità ci sono stati tanti innocenti condannati ingiustamente, ci sono stati pure molti che hanno subito la morte in croce, ma nella morte di Gesù c’è un aspetto unico, che non troviamo nelle altre morti: è il rapporto che Gesù ha con il Padre. Cogliamo questo aspetto a partire da un dato di fatto che tutti gli evangelisti ci tramandano: Gesù muore pregando. Lo abbiamo sentito anche nel brano della lettera agli Ebrei proclamato nella seconda lettura: «Gesù nei giorni della sua vita terrena offrì preghiere e suppliche, con forti grida e lacrime, a Dio che poteva salvarlo da morte e, per il suo pieno abbandono a lui, venne esaudito». I testi del Nuovo Testamento sono concordi nel dire che l’ultima parola di Gesù è stata rivolta al Padre, è stata una preghiera ispirata alla Scrittura. Potremmo dire che nel momento della sua morte, la Scrittura si è fatta carne. La morte di Gesù è stata un atto di preghiera e così ha realizzato il suo passaggio da questo mondo al Padre. Per gli esseri umani la morte è la fine di ogni relazione, per Gesù invece è stato un atto di amore e di donazione in cui ha vissuto in pienezza la relazione con il Padre. Non solo, la morte in Gesù diventa una parola di vita: «La morte che è la fine della parola e la fine del senso, diventa essa stessa parola e dimora del senso che si dona» (Joseph Ratzinger, Il cammino pasquale. Milano 2023, p. 104). Gesù trasforma la morte in un atto di comunicazione di sé al Padre e così apre una via di salvezza anche a noi uomini, perché ci mostra come l’amore è più forte della morte. Guardando a Gesù Crocifisso anche noi scopriamo dove sta la vera vita: non nelle ricchezze e negli onori, ma nell’obbedienza al Padre e nella sua fedeltà. Soltanto se seguiamo Gesù sulla via della sua Croce possiamo camminare verso la vera vita.
E’ chiaro allora che la morte di Gesù in Croce non è solo la preparazione alla Risurrezione, quasi un passaggio necessario per arrivare al lieto fine. Per il Vangelo di Giovanni la Croce non è solo la via che porta alla gloria: la Croce è già la gloria. Giovanni ci offre come una sorta di sovraimpressione, in cui il volto stesso del crocifisso rivela nella sua umiliazione la luminosità del suo essere Figlio di Dio.
Questa morte unica dà un senso a tutte le altre morti. Pilato presentando alla folla Gesù esclama «Ecco l’uomo»: veramente Gesù è l’uomo nella sua stupenda e drammatica verità, l’uomo con i tratti della più profonda sofferenza e della più grande dignità, l’uomo in cui ognuno può trovare se stesso, per trovare il senso profondo e illuminante della sua morte. Guardando a Gesù Crocifisso noi però possiamo anche dire «Ecco in quell’uomo il nostro Dio», un Dio che ci ama fino a morire per noi sulla Croce e che in questo modo vince la morte, anzi fa scaturire la vita dalla morte, rovesciando la logica umana per cui si vive per morire mentre per chi crede in Gesù Figlio di Dio si muore per vivere. Veramente la Croce è il trono regale e Gesù Crocifisso è il Re vittorioso!
Accogliamo allora l’invito della Lettera agli Ebrei: «Accostiamoci con piena fiducia al trono della grazia per ricevere misericordia e trovare grazia». Non abbiamo paura di avvicinarci alla croce di Cristo, il luogo della misericordia, per lasciarci raggiungere dall’infinita compassione di Dio e invocarla su di noi e su ogni creatura.