Carissimi Confratelli nell’Episcopato, collaboratori della CEI e amici tutti,
è sempre un grande dono trovarci in questa Assemblea Generale della nostra Conferenza Episcopale. È una gioiosa e impegnativa occasione di fraternità e di amicizia, che dà corpo all’indispensabile comunione che non è mai virtuale o disincarnata. La Chiesa è comunione ed è tutta, nelle sue fibre più intime, al servizio del Vangelo.
È nella comunione che desidero anzitutto porgere un cordiale benvenuto ai nuovi fratelli della nostra collegialità:
S.E.R. Mons. Andrea Andreozzi, Vescovo eletto di Fano – Fossombrone – Cagli – Pergola, che sarà consacrato il prossimo 18 giugno;
S.E.R. Mons. Giuliano Brugnotto, Vescovo di Vicenza;
S.E.R. Mons. Vincenzo Calvosa, Vescovo eletto di Vallo della Lucania, che sarà consacrato il 3 giugno prossimo;
Ab. Dom. Antonio Luca Fallica, Abate Ordinario di Montecassino;
S.E.R. Mons. Alessandro Giraudo, Vescovo ausiliare di Torino;
S.E.R. Mons. Angelo Giurdanella, Vescovo di Mazara del Vallo;
S.E.R. Mons. Riccardo Lamba, Vescovo ausiliare di Roma;
S.E.R. Mons. Ivan Maffeis, Arcivescovo di Perugia – Città della Pieve;
S.E.R. Mons. Giuseppe Mengoli, Vescovo eletto di San Severo, consacrato lo scorso 16 maggio (ultimo in ordine di tempo);
S.E.R. Mons. Francesco Neri, Arcivescovo eletto di Otranto, che sarà consacrato il prossimo 17 giugno;
S.E.R. Mons. Giovanni Paccosi, Vescovo di San Miniato;
S.E.R. Mons. Vito Piccinonna, Vescovo di Rieti;
S.E.R. Mons. Stefano Rega, Vescovo di San Marco Argentano – Scalea;
S.E.R. Mons. Baldassare Reina, Vescovo ausiliare Vicegerente di Roma;
S.E.R. Mons. Salvatore Rumeo, Vescovo di Noto;
S.E.R. Mons. Daniele Salera, Vescovo ausiliare di Roma;
S.E.R. Mons. Enrico Trevisi, Vescovo di Trieste.
Con affetto e riconoscenza, che non diventano mai emeriti, ricordo chi in questo anno è diventato emerito, a iniziare da S.Em. Card. Gualtiero Bassetti, Arcivescovo emerito di Perugia – Città della Pieve. Un personale grazie per il suo esempio di paternità, per il suo servizio alla Chiesa in Italia, per la visione del dialogo sul Mediterraneo nello spirito di La Pira e anche personalmente per l’affettuoso aiuto che, insieme al Card. Bagnasco e al Card. Ruini, ha avuto la bontà di donarmi, fornendo preziosi consigli. Con lui saluto:
S.E.R. Mons. Leonardo Bonanno, Vescovo emerito di San Marco Argentano – Scalea;
S.E.R. Mons. Domenico Caliandro, Arcivescovo emerito di Brindisi – Ostuni;
S.E.R. Mons. Giampaolo Crepaldi, Arcivescovo-Vescovo emerito di Trieste;
S.E.R. Mons. Guerino Di Tora, Vescovo già ausiliare di Roma;
S.E.R. Mons. Riccardo Fontana, Arcivescovo-Vescovo emerito di Arezzo – Cortona – Sansepolcro;
S.E.R. Mons. Lino Fumagalli, Vescovo emerito di Viterbo;
S.E.R. Mons. Francesco Lambiasi, Vescovo emerito di Rimini;
S.E.R. Mons. Lorenzo Loppa, Vescovo emerito di Anagni – Alatri;
S.E.R. Mons. Domenico Mogavero, Vescovo emerito di Mazara del Vallo;
S.E.R. Mons. Donato Negro, Arcivescovo emerito e Amministratore Apostolico di Otranto;
Ab. Dom. Donato Ogliari, Abate Ordinario emerito di Montecassino;
S.E.R. Mons. Beniamino Pizziol, Vescovo emerito di Vicenza;
S.E.R. Mons. Romano Rossi, Vescovo emerito di Civita Castellana;
S.E.R. Mons. Paolo Selvadagi, Vescovo già ausiliare di Roma;
S.E.R. Mons. Antonio Staglianò, Vescovo emerito di Noto;
S.E.R. Mons. Giovanni Tani, Arcivescovo emerito di Urbino – Urbania – Sant’Angelo in Vado;
S.E.R. Mons. Armando Trasarti, Vescovo emerito e Amministratore Apostolico di Fano – Fossombrone – Cagli – Pergola;
S.E.R. Mons. Giovanni Paolo Zedda, Vescovo emerito di Iglesias;
S.E.R. Mons. Giuseppe Zenti, Vescovo emerito di Verona.
Affidiamo all’amore misericordioso di Dio quanti, da quest’anno, vivono nella pienezza della comunione:
S.E.R. Mons. Egidio Caporello, Vescovo emerito di Mantova;
S.E.R. Mons. Flavio Roberto Carraro, Vescovo emerito di Verona;
S.E.R. Mons. Giuseppe Casale, Arcivescovo emerito di Foggia – Bovino;
S.E.R. Mons. Bruno Foresti, Arcivescovo-Vescovo emerito di Brescia;
S.E.R. Mons. Gervasio Gestori, Vescovo emerito di San Benedetto del Tronto – Ripatransone – Montalto;
S.E.R. Mons. Augusto Lauro, Vescovo emerito di San Marco Argentano – Scalea;
S.E.R. Mons. Francescantonio Nolè, Arcivescovo di Cosenza – Bisignano;
S.E.R. Mons. Antonino Orrù, Vescovo emerito di Ales – Terralba;
S.E.R. Mons. Benigno Luigi Papa, Arcivescovo emerito di Taranto;
S.Em. Card. Severino Poletto, Arcivescovo emerito di Torino;
S.E.R. Mons. Michele Scandiffio, Arcivescovo emerito di Acerenza;
S.E.R. Mons. Gastone Simoni, Vescovo emerito di Prato;
S.E.R. Mons. Luigi Stucchi, Vescovo già ausiliare di Milano;
S.E.R. Mons. Ernesto Vecchi, Vescovo già ausiliare di Bologna.
Il Signore doni loro beatitudine eterna.
Ringrazio il Nunzio Apostolico in Italia, S.E.R. Mons. Emil Paul Tscherrig, per essere qui con noi e per le parole che vorrà rivolgerci. Un caro saluto va a S.E.R. Mons. Ladislav Nemet, Arcivescovo di Belgrado e Vice Presidente del Consiglio delle Conferenze Episcopali d’Europa, e ai delegati delle Conferenze Episcopali estere.
Gratitudine a Papa Francesco
La nostra comunione è presieduta e rafforzata dalla parola del Santo Padre, cui guardiamo anche come Primate d’Italia e che quest’anno ci onora per ben due volte della sua presenza. Ieri abbiamo vissuto con lui un momento di dialogo franco e largo e giovedì avremo l’opportunità di ascoltare nuovamente le sue parole insieme ai referenti del Cammino sinodale. La sua parola e la sua presenza sono un dono per ogni Assemblea Generale della CEI, perché mostrano il suo affetto per la nostra Chiesa e l’Italia tutta. Gli esprimiamo profonda gratitudine, anche per i dieci anni di Pontificato, per i grandi doni alla Chiesa, le preziose indicazioni offerteci e le Visite Apostoliche in tanti luoghi del Paese. Sempre ritorniamo al suo primo grande messaggio, l’Evangelii gaudium, che costituisce sapienza pastorale e orientamento per il nostro ministero. Le indicazioni del discorso di Firenze, in occasione del Convegno Ecclesiale Nazionale, ci hanno accompagnato e orientato in questi anni e sono un riferimento fondamentale per il nostro Cammino sinodale. La gratitudine si esprime nella preghiera per lui, ma anche nella condivisione intelligente e affettuosa delle sue preoccupazioni.
Vicinanza e solidarietà per l’Emilia Romagna
In questo momento il nostro pensiero va all’Emilia Romagna, piegata dalla furia delle alluvioni, dalle esondazioni dei fiumi e dalle tante frane. L’acqua e il fango hanno mietuto vittime, devastato territori, distrutto abitazioni e aziende, cancellato ricordi e sacrifici. Anche questa volta piangiamo per esserci presi troppa poca cura della nostra Casa comune. Nell’abbracciare la gente dell’Emilia Romagna, che ha rivelato tanta solidarietà e laboriosità, ringrazio quanti – istituzioni, Forze dell’Ordine, Protezione Civile, volontari – si stanno prodigando per portare aiuto concreto e consolazione, fino ai luoghi più isolati. Un grazie anche ai sacerdoti, alle parrocchie e agli Istituti religiosi, ai tanti volontari che generosamente e spontaneamente si sono organizzati per aiutare in questo vero e proprio “ospedale da campo”. Tra di loro vi sono molti ragazzi e giovani che hanno deciso di dare una mano in modo concreto, per alleviare le sofferenze con la loro forza e la loro speranza. L’impegno è mantenere lo stesso spirito di solidarietà e di comunità nei prossimi mesi e forse anni per riparare quanto la furia delle acque ha rovinato.
Preghiera e impegno per la pace
Desidero iniziare questo momento di condivisione da una delle preoccupazioni che Papa Francesco ci ha sempre rappresentato in questi anni, recentemente fino alla commozione: la pace, oggi specialmente in Ucraina con “un popolo martoriato” (cfr Regina Caeli, domenica 21 maggio 2023). Gli siamo grati per la sua profezia, così rara oggi, quando parlare di pace sembra evitare di schierarsi o non riconoscere le responsabilità. La sua voce si fa carico dell’ansia profonda, talvolta inespressa, spesso inascoltata, dei popoli che hanno bisogno della pace. La guerra è una pandemia. Ci coinvolge tutti. Nel recente viaggio in Ungheria, si è interrogato: “Dove sono gli sforzi creativi di pace?”. Lasciamoci inquietare da questa domanda, perché non rimanga solo la logica spietata del conflitto. Papa Francesco constata il deterioramento delle relazioni internazionali: “Pare di assistere al triste tramonto del sogno corale di pace – ha detto in Ungheria – mentre si fanno spazio i solisti della guerra. In generale, sembra essersi disgregato negli animi l’entusiasmo di edificare una comunità delle nazioni pacifica e stabile, mentre si marcano le zone, si segnano le differenze, tornano a ruggire i nazionalismi… A livello internazionale pare persino che la politica abbia come effetto quello di infiammare gli animi anziché di risolvere i problemi, dimentica della maturità raggiunta dopo gli orrori della guerra e regredita a una sorta di infantilismo bellico. Ma la pace non verrà mai dal perseguimento dei propri interessi strategici, bensì da politiche capaci di guardare all’insieme, allo sviluppo di tutti…” (Incontro con le Autorità, con la Società civile e con il Corpo diplomatico, Budapest, 28 aprile 2023).È un’analisi che ci interroga. Per noi la pace non è solo un auspicio, ma è la realtà stessa della Chiesa, che germina – come il segno di pace – dall’Eucaristia e dal Vangelo. La Chiesa e i cristiani credono nella pace, siamo chiamati a essere tutti operatori di pace, ancora di più nella tempesta terribile dei conflitti. Durante la Seconda Guerra mondiale la Chiesa era tra la gente e sul territorio. Proprio tra pochi giorni ricorderemo i sessant’anni della morte di San Giovanni XXIII, che visse due guerre mondiali e attualizzò con efficacia il messaggio pacifico della fede con la Pacem in terris, cominciando a rivolgersi agli “uomini di buona volontà”. Siamo il popolo della pace, a partire da Gesù che è la nostra pace. Lo siamo per la storia del nostro Paese, per la sua collocazione nel Mediterraneo, cerniera tra Nord e Sud, ma anche tra Est e Ovest. Lo siamo – mi sembra – per le radici più profonde e caratteristiche del nostro popolo. Come cristiani italiani, con il Papa, siamo chiamati a una fervente e insistente preghiera per la pace in Ucraina e perché “si affratellino tutti i popoli della terra e fiorisca in essi e sempre regni la desideratissima pace” (Pacem in terris, 91). Preghino tutte le nostre comunità intensamente per la pace! L’impegno di intercessione cambia la storia, come diceva Giorgio La Pira.
C’è una cultura di pace tra la gente da generare e fortificare. Tante volte l’informazione così complessa spinge all’indifferenza, a essere spettatori della guerra ridotta a gioco. La solidarietà con i rifugiati – quelli ucraini, ma non solo – è un’azione di pace. I conflitti si moltiplicano. Penso al Sudan e al suo dramma umanitario. In un mondo come il nostro non possiamo prescindere da una visione globale. Seguire le vicende dolorose dei Paesi lontani, con la preghiera e l’informazione, è una forma di carità. Del resto la cultura della pace è un capitolo decisivo della cultura della vita, che trae ispirazione dalla fede.
Il Card. Bergoglio affermava: “Non è la stessa cosa la cultura dell’idolatria rispetto alla cultura creata da una donna o da un uomo che adorano il Dio vivo”. Giovanni Paolo II diceva una cosa molto coraggiosa: “Una fede che non diventa cultura è una fede non pienamente accolta, non interamente pensata, non fedelmente vissuta” (Discorso ai partecipanti al Congresso nazionale del Movimento ecclesiale di impegno culturale, 16 gennaio 1982). Sottolineava il creare cultura. Siamo in un tempo emozionale e soggettivo che rivela e accentua processi di deculturazione: tutto diventa fluido, anche quello che ieri sarebbe stato impensabile. Cadono saldi riferimenti, mentre ci si esalta (e poi ci si deprime) nella drammatica vertigine della soggettività dell’io isolato, cui sembra che tutto parta da lui.
La fede crea una cultura della vita attraverso esistenze e pensieri impregnati di essa. La fede e la carità – scriveva un sapiente uomo di cultura, scomparso da parecchi anni, Mons. Rossano – hanno bisogno “della cultura, e già per esprimersi, affermarsi, scendere nell’esistente e sprigionare le loro valenze esistenziali”. Quando non avviene, è grande il rischio di ridursi a intimismo, assistenzialismo o semplicemente a vivere fuori dalla storia.
In cammino, per incontrare tutti
In questo orizzonte drammatico e minaccioso, da due anni abbiamo iniziato il Cammino sinodale. Non è stato un evento ma un cammino, proprio per partire dalla vita concreta delle nostre comunità e dai segni dei tempi, cioè dai nostri compagni di strada. Il Cammino sinodale, perché funzioni, deve avvenire nell’esperienza concreta, accettando l’imprevedibilità dell’incontro, misurandosi con le domande che agitano le persone e non quello che noi pensiamo vivano, per trovare assieme le risposte. Il Cammino sinodale non corrisponde a una logica interna né mira a un riposizionamento in tono minore, difensivo o offensivo, ma alla compassione di fronte alla grande folla che accompagna sempre la piccola famiglia di discepoli.
Ci troviamo adesso a un giro di boa che rappresenta anche il tema principale di questa nostra Assemblea: dalla fase narrativa passiamo a quella sapienziale, dall’ascolto al discernimento. Certo: l’ascolto non è “una fase” ma “uno stile di Chiesa”, un approccio costante nei confronti delle diverse realtà dentro e fuori la Chiesa. E quante attese di Dio si rivelano in tanti a loro modo assetati di risposte, con una domanda spirituale, complessa, a volte non decifrata, contraddittoria! Questo si rivela quando ascoltiamo e parliamo con simpatia, non da lontano o con la freddezza del funzionario o omologandoci alla stessa mentalità. Le tante attese che l’incontro suscita chiedono la rivisitazione di tanti nostri modi, un cambio di paradigma per incontrare, ascoltare, prendere sul serio, stabilire relazioni personali nelle quali tutti dobbiamo essere coinvolti.
Pensando all’avvio della fase sapienziale, mi sono lasciato guidare dalla figura di Salomone, il saggio dell’Antico Testamento. La sua preghiera (1Re 3,6-9) risponde alla domanda: “Cos’è il discernimento nella Sacra Scrittura?”. Salomone chiede al Signore: “Concedi al tuo servo un cuore docile, perché sappia rendere giustizia al tuo popolo e sappia distinguere il bene dal male” (1Re 3,9a). Il Signore risponde: “Poiché hai domandato questa cosa e non hai domandato per te molti giorni, né hai domandato per te ricchezza, né hai domandato la vita dei tuoi nemici, ma hai domandato per te il discernimento nel giudicare, ecco, faccio secondo le tue parole. Ti concedo un cuore saggio e intelligente” (1Re 3,11-12a).
La sapienza è sinonimo di discernimento. È un dono da chiedere al Signore nella preghiera, conseguenza anche della povertà dalle ricchezze. Salomone chiede un “cuore docile”. Gli esegeti notano che in ebraico questa espressione suona come “un cuore che ascolti”, “un cuore capace di ascoltare” (in ebr. leb shomea‘). Per entrare nella fase del discernimento si richiede la preghiera, per riconoscere il primato della grazia di Dio sulle azioni umane e lasciarsi guidare dallo Spirito che viene dall’alto e rende l’ascolto dell’altro scelta, condivisione, cultura. Il discernimento non consiste nell’applicazione di regole o in un infinito campionario di interpretazioni, ma inizia con la fede, con uno stile di vita personale forgiato dalla Parola di Dio. Non ci sarà vero discernimento se non sapremo continuare ad ascoltare cosa lo Spirito continua a chiederci anche in questa seconda fase del nostro percorso. Salomone si trova a fronteggiare un problema concreto. È il celebre episodio delle due donne che rivendicano lo stesso figlio (1Re 3,16-28): una situazione tragica, che richiede un giudizio giusto, perché è in gioco non solo la verità delle cose ma soprattutto la vita delle persone. La preghiera si misura subito con la realtà, esercitando il dono ricevuto. Quali domande aspettano da parte nostra una decisione saggia?
Non possiamo nascondere che in questa prima fase del Cammino sinodale sono emerse fatiche, in vari ambiti e per varie ragioni: alcune diocesi avevano appena celebrato o erano in piena celebrazione di un Sinodo diocesano e si sono trovate quindi già avanti nel percorso, dovendo aspettare tutti gli altri; alcuni hanno chiesto chiarimenti o hanno persino avanzato dubbi sulla opportunità dello strumento sinodale stesso per affrontare i nodi della vita della Chiesa odierna. Dobbiamo registrare alcune difficoltà nei nostri presbiteri, che ovviamente ci devono far riflettere. Il processo, però, è avviato e procede, grazie alla dedizione di tanti, tra i quali menziono la Presidenza e il Comitato del Cammino sinodale, presieduto da Mons. Erio Castellucci. I referenti diocesani hanno svolto un ruolo decisivo e promettente. Nell’Evangelii gaudium Papa Francesco chiede di “avviare processi, anziché occupare spazi” (EG, n. 223): è quanto stiamo facendo, con tutte le fatiche che questo comporta, ma anche con la serenità del contadino che sa che il suo compito è di seminare nel modo giusto perché i frutti matureranno a tempo debito. I processi impongono (ma solo in itinere non in laboratorio!) di identificare le forme necessarie per trarre le indicazioni comuni e necessarie perché l’esperienza cresca e possa coinvolgere tanti. Se alziamo gli occhi e guardiamo, ci accorgiamo come la timidezza e il pessimismo non solo non siano giusti, ma talvolta infondati. Il Cammino sinodale ci educa al discernimento e alla lettura dei segni dei tempi. Insieme: spesso una “coscienza isolata” non arriva a vedere dove invece giunge uno sguardo comunitario e sinodale. Timidezza e pessimismo non sono fondati, perché c’è una chiamata della Chiesa espressa da tanti segni, tante voci, domande e situazioni.
Solo il Signore conosce i nomi di quanti fanno parte di questo popolo. Se non ascoltiamo queste parole mettendole in pratica, corriamo il rischio di un ripiegamento identitario, accontentandoci di “pochi ma puri” (potrebbe essere pure la pigrizia dei “pochi ma nostri”). Rischiamo di essere irrilevanti nella vita di troppi e nella storia, nascondendo il talento per paura o pigrizia. La predicazione di Paolo si poneva il problema decisivo dell’inclusione dei gentili e della loro fraternità con i giudeo-cristiani. Oggi ci vuole quello spirito di Paolo, quella capacità di abbattere i muri dell’abitudine, d’incontrare audacemente persone e mondi nuovi ed entrare in relazione con il “popolo numeroso” delle nostre città. Sotto l’ispirazione e la protezione dell’apostolo si attua la conversione pastorale. È un fatto storico, di cui portiamo la responsabilità di fronte a Dio e al futuro della Chiesa. Il Signore chiede a Paolo di “non tacere”: una Chiesa chiusa e paurosa, tace.
“Continua a parlare”: non è una novità, ma si deve aprire una stagione di più intenso impegno in questo senso. Tutti – laici, giovani e adulti, anziani, sacerdoti, religiosi – devono impegnarsi in un grande e rinnovato colloquio con le persone del proprio ambiente e andare oltre. Gli ascoltatori della Parola di Dio devono parlare. La Chiesa sinodale deve essere comunicativa. Spiegava Paolo VI che, per primo, fece dell’evangelizzazione l’orizzonte della Chiesa in Italia: “Ancor prima di convertirlo, anzi per convertirlo, il mondo bisogna accostarlo e parlargli” (Ecclesiam Suam, 70). L’evangelizzazione nasce e vive tanto nelle parole dei credenti. Sembra un compito semplice, ma è esigente, perché richiede fedeltà al colloquio: il compito di una Chiesa profetica. Il desiderio di molti giovani – circa 60.000 – di partecipare alla GMG di Lisbona è significativo. Le difficoltà ci sono con il mondo giovanile, come sappiamo; ma le più grandi difficoltà sono la paura e l’impazienza.
Abusi, un rinnovato impegno
Non dimentichiamo certo la vergogna per lo scandalo degli abusi e per la sofferenza da essi provocata che spinge ad affrontarli con un rinnovato impegno, senza opacità, ingenuità, complicità e giustizialismi. Ricordiamo quanto abbiamo scritto nelle nostre Linee guida: “La vittima va riconosciuta come persona gravemente ferita e ascoltata con empatia, rispettando la sua dignità. Tale priorità è già un primo atto di prevenzione perché solo l’ascolto vero del dolore delle persone che hanno sofferto questo crimine ci apre alla solidarietà e ci interpella a fare tutto il possibile perché l’abuso non si ripeta”. In questo senso l’incontro da poco vissuto con alcune vittime, familiari e sopravvissuti, è conferma della nostra scelta di continuare nel dialogo intrapreso con chi ha vissuto in prima persona questo dramma. Siamo anche convinti che l’ascolto della sofferenza sia tappa essenziale del cammino per consolidare e rendere più efficaci le attività di formazione e prevenzione messe in atto dalle Chiese in Italia attraverso la rete territoriale dei Servizi per la tutela dei minori e degli adulti vulnerabili. A questo argomento dedicheremo in altra occasione più spazio, presentando una necessaria e dovuta riflessione estesa e approfondita: non possiamo però non confermare che occupa molta attenzione nel Servizio Nazionale per la tutela dei minori, nelle diocesi, nei movimenti e organizzazioni e nella struttura tutta della Conferenza Episcopale.
Accoglienza e natalità non si contrappongono
Vari sono i punti che sono stati rilevati nelle sintesi condivise dalle Conferenze Episcopali Regionali. Ne ricordo alcuni. È stata da molti notata la crisi della famiglia. E questo non soltanto nel senso che si alzano voci sempre più pressanti di un’equiparazione dell’istituzione familiare ad altre forme di convivenza. Spesso le giovani coppie non riescono a costituire una famiglia semplicemente per la precarietà del lavoro o la mancanza di politiche di sostegno, a cominciare dalla casa. Quello della famiglia ha una ricaduta diretta su un altro tema, che ormai si presenta come una drammatica tendenza negativa pluriennale: si tratta della crisi demografica. Secondo alcuni demografi, siamo un Paese in estinzione. In questo ambito, alcune diocesi italiane hanno segnalato da tempo il problema particolarmente acuto dello spopolamento delle zone interne. Ma è tutto il Paese a soffrire una crisi e questa ha a che vedere anche con l’accoglienza di migranti e la loro inevitabile integrazione nella nostra società. Accoglienza e natalità, ha ricordato Papa Francesco, non solo non si oppongono ma si completano e nascono dal desiderio di guardare al futuro. La questione demografica e tutte le questioni sociali meritano attenzione e politiche lungimiranti. È sbagliato contrapporre o separare valori etici e valori sociali: sono la stessa cultura della vita che sgorga dal Vangelo! La cultura della vita sa che essa nasce e cresce nella famiglia e che tutto non dipende dal proprio volere soggettivo che arriva a giustificare la cosiddetta maternità surrogata, che utilizza la donna, spesso povera, per realizzare il desiderio altrui di genitorialità. Papa Francesco ha ben chiarito come natalità e accoglienza siano nello stesso orizzonte di apertura al futuro: “Non vanno mai contrapposte perché sono due facce della stessa medaglia, ci rivelano quanta felicità c’è nella società” (Discorso ai partecipanti alla III edizione degli Stati generali della natalità, 12 maggio 2023).
L’accoglienza della vita nascente si accompagna alle porte chiuse a rifugiati e migranti. È la triste società della paura. Chiudere le porte a chi bussa è, alla fine, nella stessa logica di chi non fa spazio alla vita nella propria casa. Del resto abbiamo bisogno di migranti per vivere: li chiedono l’impresa, la famiglia, la società. Non seminiamo di ostacoli, con un’ombra punitiva, il loro percorso nel nostro Paese! C’è un livello di difficoltà burocratica che rende difficile il percorso d’inserimento, i ricongiungimenti familiari, il tempo lungo per ottenere i permessi di soggiorno, mentre si trascurano i riconoscimenti dei titoli di studio degli immigrati (che pure sono un valore per la nazione) o ancora si rimanda una decisione sullo ius culturae. Intanto la regolarizzazione del 2020 attende in parte di essere ancora espletata. Non è dare sicurezza, anzi esprime la nostra insicurezza. Facciamo nostre in maniera accorata le parole del Santo Padre di fronte al naufragio di Cutro, pronunciate nell’udienza ai rifugiati giunti in Europa con i corridoi umanitari il 18 marzo scorso: “Quel naufragio non doveva avvenire, e bisogna fare tutto il possibile perché non si ripeta”. Parole gravi, dolorose e impegnative.
Lavoro e casa, per generare vita
La vita ha bisogno, per crescere e generare vita, di casa e di lavoro. Qui la centrale problematica del lavoro povero e della precarietà. La Caritas domanda “politiche di contrasto alla povertà”, le quali “richiedono interventi volti a ridurre la precarietà e il fenomeno del cosiddetto lavoro povero. Il decreto lavoro invece prevede strategie di detassazione che, seppur lodevoli, non sono configurabili come una politica dei redditi o di contrasto alla povertà. Senza dimenticare che il decreto prefigura un aumento della durata e dell’applicabilità dei contratti a tempo determinato, nonché l’ampliamento dell’utilizzo dei voucher” (Caritas Italiana, comunicato del 7 maggio 2023).
Non c’è vita degna e non c’è famiglia senza casa. Il piano della costruzione di alloggi pubblici è rimasto abbandonato da anni. Non fu così nei primi decenni del Dopoguerra. Perché l’Italia, da anni, non si fa casa ospitale per le giovani coppie e per chi non ha casa? Può essere utile la riconversione di parte del patrimonio pubblico per l’edilizia popolare. C’è un bisogno di casa a costi accessibili. La protesta degli studenti è una spia significativa di un più vasto disagio silenzioso. C’è un’Italia che soffre: i giovani, le famiglie, gli anziani, i senza casa, i precari, i poveri. La solitudine è una povertà in più. Quella delle periferie urbane, delle aree interne, parte importante – non come numero di abitanti – per l’ecologia umana e ambientale dell’Italia di domani.
Ringraziamo e incoraggiamo i cristiani, i sacerdoti e religiosi, impegnati perché nessuno sia solo: sono una risorsa meravigliosa per l’Italia, umile e spesso poco riconosciuta. L’Istat ha rilevato che in sei anni il Paese ha perso un milione di volontari, ridotti oggi a 4.600.000: un dato che ci fa riflettere anche sulla necessità di motivare in profondità l’impegno per gli altri nei nostri ambienti. La gratuità del servizio all’altro nel bisogno è un’esperienza sociale e spirituale: entrambi gli aspetti sono decisivi per farne una testimonianza profetica in un mondo dominato dalle logiche di mercato.
Anche il tema del lavoro resta ancora purtroppo al centro delle preoccupazioni di tante persone e senza che all’orizzonte si profilino ancora soluzioni strutturali. La questione coinvolge non solo l’accesso al mondo del lavoro, ma anche la dignità stessa del lavoratore, la sua giusta retribuzione, la parità di retribuzione tra uomini e donne, le garanzie sociali in caso di malattia propria o di un familiare. La Dottrina sociale della Chiesa su questi punti ha parole chiare. E fortunatamente non di rado anche i media fanno conoscere esperienze positive, come la ripartizione degli utili, la valorizzazione dei dipendenti attraverso bonus, etc.: tutte dinamiche che creano un ambiente in cui alla serenità del lavoratore seguono effetti benefici sulla produzione stessa.
Poveri e anziani, priorità che attendono risposte
Tante Conferenze Episcopali Regionali segnalano il problema dei rapporti con le autorità civili e con la politica. Le questioni locali vanno di certo affrontate in modo almeno parzialmente diverso da quelle nazionali. Con gli anni è avanzata l’idea di rivedere l’architettura della casa comune, la Costituzione repubblicana: questa ci richiama a pensarci sempre insieme agli altri. La Costituzione – come più volte ci ha ricordato il Presidente Mattarella – è ispiratrice del vivere insieme per il bene comune. Aggiornare il dettame costituzionale alle nuove esigenze del tempo è un processo che seguiamo con attenzione. Decisivo è il metodo. Per cambiare la Costituzione è necessario ritrovare uno spirito costituente, come fu nel Dopoguerra, in cui tutte le parti sentirono la responsabilità comune: non era momento di lotta politica, ma possibilità di fondare la vita politica del futuro. Un primo banco di prova, come dichiarò il Consiglio Permanente nel settembre scorso, è una legge elettorale adeguata e condivisa.
Alla disponibilità costante al dialogo e alla collaborazione leale si accompagnano le richieste pressanti di adottare politiche che abbiano un’attenzione particolare ai più deboli: non solo a quanti si trovano in uno stato di povertà economica, ma anche a quanti sono segnati dalla malattia, a quanti vedono violati i propri diritti fondamentali, a quanti attendono una sentenza giusta e celere. Aspettiamo la definizione del promettente riordino dell’assistenza degli anziani, a favore delle cure domiciliari. È un’emergenza da affrontare con visione, perché il dono della longevità sia una benedizione e non la condanna alla solitudine o alla perdita di dignità.
Lotta alle mafie ed educazione alla legalità
Non possiamo nascondere che il clientelismo se non persino la corruzione o il solo cattivo funzionamento nella amministrazione pubblica costituiscono una piaga, che impedisce di fatto alla comunità civile di vivere in pace. Papa Francesco ha più volte sottolineato la gravità dei “peccati sociali”. Al contempo, apprezziamo e sosteniamo l’impegno di quanti svolgono il proprio dovere istituzionale con rigore e, a volte, con grande sacrificio personale. I recenti successi dello Stato nei confronti delle mafie sono da salutare con grande compiacimento. Oggi ricordiamo l’anniversario della strage di Capaci, in cui persero la vita il giudice Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, anche lei magistrato, e gli agenti della scorta Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro. E quest’anno si compie anche il trentesimo anniversario del discorso di San Giovanni Paolo II nella Valle dei Templi ad Agrigento (9 maggio 1993). L’intervento fu anche ispirato dall’incontro con i genitori del Beato Rosario Livatino, primo magistrato beatificato, laico di 37 anni, che ha mostrato come si possa cambiare la storia a mani nude e con la giustizia. Al discorso di Agrigento seguirono l’attentato mafioso a San Giovanni in Laterano, quando la cattedrale del Papa fu colpita dal terrorismo, fatto unico nella storia, e l’uccisione di don Pino Puglisi, prete che aveva fatto dell’educazione dei giovani il terreno di liberazione dalla mafia.
Le mafie non sono scomparse oggi, anzi si sono estese nel Centro-Nord, dove prosperano largamente anche con metodi e volti in parte mutati. Dal 1991, la CEI, con la Nota pastorale Educare alla legalità, afferma che “il cristiano non può accontentarsi di enunciare l’ideale e affermare i principi generali. Deve entrare nella storia e affrontala nella sua complessità”. C’è bisogno di una coscienza più ampia del pericolo. Dove il tessuto sociale è slabbrato, lo Stato lontano, la gente sola, disperata, povera, la scuola indebolita, c’è terreno di crescita per le mafie. La Chiesa, comunità viva e generosa, resiste alla forza disgregativa. Non siamo il resto del passato, ma – con i nostri limiti – operiamo per la liberazione dal male e siamo nel cuore dello slancio dell’Italia verso il futuro.
Annuncio e ripensamento delle strutture
Sempre all’interno nella Chiesa, nel decisivo impegno di tutti a incontrare tutti, appare essenziale ripensare l’annuncio cristiano, a cominciare dalle proposte della catechesi, dei sacramenti, della pastorale dei ragazzi, l’ambito della formazione, da quella iniziale dei seminaristi a quella permanente dei presbiteri, nonché dei laici in generale, dei futuri insegnanti di religione, e così via. Si tratta di una questione che richiede un impegno convergente di tante forze. Il primo pensiero di tanti Pastori va ovviamente alla formazione dei seminaristi e alla Ratio dei Seminari. Ma abbiamo bisogno di ripensare più in grande la formazione dei laici, valorizzando il potenziale già esistente nelle istituzioni di Teologia e Scienze Religiose, avviando percorsi di ricerca sulle grandi questioni, potenziando la formazione permanente in ogni fase della vita per rendere semplice l’ascolto del Vangelo e andando incontro a tanti che lo cercano.
Infine mi permetto di segnalare due ambiti, raccogliendoli sempre dalle indicazioni provenienti dalle Conferenze Episcopali Regionali. Il primo riguarda il ministero episcopale in sé e nel quadro della collegialità. Ciascuno di noi oggi si trova a vivere il proprio compito pastorale, gravato di tante responsabilità burocratiche e amministrative. Sono temi sui quali ci siamo confrontati e continueremo a farlo. Alcuni di noi, poi, sono coinvolti in prima linea nell’accorpamento delle diocesi: una sfida per il futuro ma anche un’opportunità per ripensare nuove forme di prossimità, in ascolto delle fatiche che questo processo può portare al popolo di Dio e anche al nostro stesso ministero.
Un secondo ambito di costruzione del futuro riguarda la CEI intesa come struttura composta da Uffici, Servizi e Organismi a servizio dei Vescovi e delle realtà diocesane che sono in Italia, per quella “conversione missionaria” auspicata Papa Francesco nell’Evangelii gaudium e a fondamento delle riforme della Curia Romana (Praedicate Evangelium) e del Vicariato di Roma (In Ecclesiarum Communione).
Siamo prossimi alla Pentecoste e invochiamo lo Spirito Santo, perché ci doni un grande entusiasmo comunicativo: lo doni al popolo di Dio, perché tutti parlino in modo ispirato, annunciando la fede e il senso di una vita piena, vissuta non per sé stessi. Scrive l’apostolo ai Colossesi: “Il vostro parlare sia sempre gentile, sensato, in modo da saper rispondere a ciascuno come si deve” (4,6). Non si tratta di chiedere ai laici qualcosa in più nelle nostre istituzioni, pur cosa buona, ma di portare questo spirito negli ambienti e nelle situazioni dove solo loro sono. Insomma un entusiasmo comunicativo e creativo del Vangelo nella vita quotidiana. La Pentecoste – questa Pentecoste 2023, in pieno Cammino sinodale – è il nostro programma. Siamo nell’imminenza del Giubileo e Giovanni Paolo II nella Tertio Millennio Ineunte diceva che il Vangelo è il programma del XXI secolo: “Il programma c’è già: è quello di sempre, raccolto dal Vangelo e dalla viva Tradizione. Esso si incentra, in ultima analisi, in Cristo stesso, da conoscere, amare, imitare, per vivere in lui la vita trinitaria, e trasformare con lui la storia…” (n. 29). È l’orizzonte di ogni giorno, al di là di un anno. Tuttavia, tante volte le parrocchie e le comunità chiedono che fare e dire, insomma programmi per la propria vita e attività. Tali programmi sono un necessario strumento di orientamento e di comunione, non cronogrammi rigidi. Con tanta libertà evangelica camminiamo sinodalmente con la nostra debolezza, fiduciosi nello Spirito del Signore, convinti della nostra missione, ma anche – con l’aiuto del Signore – di dover inaugurare una nuova stagione di comunicazione efficace della Parola che ci salva. Tanti segni ci confermano che questa è la strada per cui inoltrarci. Lo Spirito del Signore ci renda unanimi e illumini i lavori di questa nostra Assemblea.