Nella mattinata del sabato 3 settembre, alle ore 10, i pellegrini delle diocesi di Belluno-Feltre, Vittorio Veneto e Venezia (le tre diocesi che hanno goduto del ministero sacerdotale ed episcopale del futuro Papa Luciani), giunti a Roma per la beatificazione di Giovanni Paolo I in programma domani alle 10.30, hanno partecipato nella basilica di San Pietro a una Santa Messa che è stata presieduta dal patriarca di Venezia, Francesco Moraglia, e concelebrata dai vescovi di Belluno-Feltre, Renato Marangoni, e di Vittorio Veneto, Corrado Pizziolo, insieme a numerosi preti. «Le parole di Gesù ci fanno capire che cresce e si fa grande solo chi è umile», ha fatto presente tra l’altro il Patriarca nella sua omelia facendo riferimento a Papa Luciani. «La cosa più importante, l’unica che rimane, è la santità», ha sottolineato.
Alla celebrazione hanno preso parte anche i giovani delle tre diocesi che sono giunti a Roma a piedi, segno di una fede che ci mette in cammino ha fatto osservare il patriarca che ha sottolineato come proprio la fede, come il lavoro e la solidarietà umana e cristiana sono valori che contraddistinguono il Veneto.
Nelle parole di Moraglia, oltre a un’articolata riflessione sull’umiltà, anche un saluto affettuoso rivolto a Papa Francesco, la constatazione che il momento della beatificazione è atteso con grande trepidazione e un riferimento alla festa odierna di san Gregorio Magno e al suo “intreccio” con alcuni momenti della vita di Papa Luciani che gli dedicò uno dei suoi pochi Angelus, ma che in precedenza aveva passato 7 anni da studente e 20 come insegnante nel Seminario di Belluno che è dedicato proprio a san Gregorio Magno e iniziò a esercitare il suo servizio alla Chiesa come Papa proprio il 3 settembre, giorno in cui san Gregorio fu eletto Papa.
Di seguito il testo integrale
S. Messa in occasione del pellegrinaggio a Roma delle Diocesi di Venezia, Belluno-Feltre e Vittorio Veneto
per la beatificazione di Albino Luciani – Papa Giovanni Paolo I
(Roma / Basilica di S. Pietro, 3 settembre 2022)
Omelia del Patriarca di Venezia Francesco Moraglia
Carissimi,
ringraziamo il Signore per questo momento di preghiera che prepara l’evento della beatificazione di Albino Luciani, papa Giovanni Paolo I.
Quest’evento è da noi atteso con grande trepidazione e già partecipare a questo pellegrinaggio interdiocesano è un modo per rendere vivo e visibile il Cammino sinodale delle Chiese che sono in Italia.
Porgo un cordiale saluto ai laici, ai consacrati, alle consacrate, ai diaconi, ai presbiteri e, ovviamente, ai confratelli Vescovi.
Siamo nella Basilica di San Pietro, uniti nella gioia che nasce dal vedere come, nella Chiesa, la santità sia ciò che rimane oltre il tempo.
Siamo giunti, come pellegrini, dalle nostre amate Chiese venete, per partecipare alla beatificazione di un umile e grande figlio di quelle terre, la cui storia è intrisa di fede, lavoro e solidarietà umana e cristiana.
Albino Luciani nacque a Canale d’Agordo e trascorse in Veneto tutta la sua vita, esercitandovi il ministero sacerdotale come presbitero e vescovo; fu prete della Chiesa che è in Belluno-Feltre, poi vescovo della diocesi di Vittorio Veneto e, infine, patriarca di Venezia.
La nostra assemblea eucaristica, raccolta attorno all’altare della Cattedra di Pietro, desidera innanzitutto rivolgere un saluto affettuoso a Papa Francesco, un saluto che si fa preghiera per Lui e per tutta la Chiesa.
Oggi, per una felice coincidenza, si celebra la memoria di san Gregorio Magno, papa e dottore della Chiesa. La preghiera della colletta ci ha invitati a pregare per quanti sono chiamati a guidare la Chiesa affinché siano docili a quello “spirito di sapienza” necessario per far progredire il popolo a loro affidato ed accompagnarlo imitando Dio che sostiene e accompagna il suo popolo “con la soavità e la forza dell’amore”.
Proprio il 3 settembre del 1978, esattamente 44 anni fa, Giovanni Paolo I dedicò uno dei suoi pochi Angelus – pochi per la brevità del suo servizio come vescovo di Roma – al grande pontefice e dottore della Chiesa.
In tale circostanza, confessò la sua devozione a Gregorio Magno con queste parole: “A Belluno il seminario si chiama gregoriano in onore di S. Gregorio Magno. Io ci ho passato 7 anni come studente e 20 come insegnante”. E poi rimarcò il particolare incrocio di date: “Si dà il caso che oggi, 3 settembre, lui sia stato eletto Papa ed io comincio ufficialmente il mio servizio alla Chiesa universale”.
Ma soprattutto egli volle sottolineare il profilo spirituale del suo grande predecessore, nel quale Giovanni Paolo I si ritrovava. Gregorio Magno – continua Luciani – “era romano, diventato primo Magistrato della città. Poi ha dato tutto ai poveri, si è fatto monaco, è diventato Segretario del Papa. Morto il Papa, hanno eletto lui e non voleva. Ci si è messo di mezzo l’Imperatore, il popolo. Dopo, finalmente, ha accettato…”.
E ancora: “… (Gregorio Magno) ha scritto dei bellissimi libri; uno è la Regola Pastorale: insegna ai vescovi il loro mestiere, ma, nell’ultima parte, scrive: «Io ho descritto il buon pastore ma non lo sono, io ho mostrato la spiaggia della perfezione cui arrivare, ma personalmente mi trovo ancora nei marosi dei miei difetti, delle mie mancanze, e allora: per piacere – ha detto – perché non abbia a naufragare, gettatemi una tavola di salvezza con le vostre preghiere». Io dico altrettanto…”, concluse Luciani, con la consueta umiltà e semplicità, indicando alcuni tratti della figura di Gregorio Magno ed invocando per sé, all’inizio del ministero di vescovo di Roma, il sostegno della preghiera della Chiesa per essere, a sua volta, un buon pastore.
La prima lettura, che abbiamo appena ascoltato (2Cor 4,1-2.5-7), tratta proprio del ministero e dice che è dono della misericordia di Dio, è risposta ad una chiamata; il ministero non è un’autopromozione in cui il protagonista è l’io di chi viene chiamato ma l’amore di Dio che chiama. Tutta la vita di Albino Luciani, nelle sue differenti stagioni, ha testimoniato tale modo di incarnare ed esercitare il ministero.
Paolo, nella sua seconda lettera ai Corinti, dice in modo chiaro e ripetuto che il ministero pastorale non è mai annunciare se stessi ma Gesù Cristo (cfr. v. 5); è annunciare “apertamente la verità e presentandoci davanti ad ogni coscienza umana” (v. 2). Torna qui di nuovo il rapporto fra verità e coscienza, fra verità e libertà; è una questione sempre aperta ed oggetto di discussioni, in particolare nella modernità.
Annunciare la Verità non è un’operazione astratta, è presentare la persona di Gesù Cristo; l’esempio poi del “tesoro in vasi di creta” (v. 7) è significativo. La Verità, infatti, ci è affidata e non è un prodotto dell’umano sapere o il frutto delle nostre risorse personali, non è a nostra disposizione e non coincide con le aspettative personali, non di rado espressive del modo comune di pensare del nostro mondo.
L’apostolo Paolo, e poi quelli che verranno dopo di Lui, non potranno “cambiare” Gesù Cristo per annunciare un altro Vangelo o ricercare la propria gloria e il proprio successo umano.
Il ministero ecclesiale deve essere plasmato da Cristo che però consegna gli uomini di ogni tempo alla loro libertà (ci vuole liberi!), non offrendoci una strada comoda, come quella suggerita dal diavolo a Gesù nelle tentazioni all’inizio del suo ministero pubblico.
Dostoevskij, nel romanzo “I fratelli Karamazov” ed in particolare nel dialogo – in realtà un monologo – tra il Grande Inquisitore e Gesù Cristo ritornato sulla terra, ripropone questo tema in modo drammatico e geniale. Il Grande Inquisitore concede agli uomini tutto quello che essi vogliono e giunge persino a rimproverare lo stesso Gesù che non lo ha fatto e non intende farlo…
Cristo, quindi, è la luce e la verità che riempie e “informa” le coscienze di chi non si lascia sedurre dalle divinità di questo mondo e così diventa quel terreno buono per la semina della Parola di Dio (cfr. Mt cap. 13).
La fragilità degli apostoli – i “vasi di creta” – è anche la fragilità del Vangelo che è una verità affidata all’uomo e alla sua libertà. Lo stesso apostolo Paolo, innanzi ai nuovi maestri che assumono i criteri del mondo su cui si poggiano le diverse culture, risulta essere un “perdente”.
Oggi viviamo in un contesto frutto dell’alleanza fra la tecno-scienza, i grandi capitali (nelle mani di élite) e i media che impongono una concezione dell’uomo opposta a quella del Vangelo. Il ministro – come fu Giovanni Paolo I – deve essere generoso, vicino agli uomini e alle loro fragilità, ma consapevole che “Gesù Cristo è lo stesso ieri, oggi e sempre!” (Eb 13,8) ed amarlo vuol dire annunciarlo non vergognandosi di lui.
Ancora san Gregorio Magno, in uno dei suoi Dialoghi, ci offre spunti preziosissimi per delineare il profilo del vero ministro e lo fa partendo dall’esperienza di san Benedetto. Racconta come si può diventare guide per gli altri solo dopo un periodo di silenzio, di preghiera, di “deserto”; solo dopo i tre anni di solitudine a Subiaco, infatti, Benedetto raggiunse la maturità per fondare i primi suoi cenobi e, soprattutto, per diventare guida di altri uomini proponendo loro anche una Regola di vita.
A Subiaco, Benedetto riuscì a “…superare le tre tentazioni fondamentali di ogni essere umano: la tentazione dell’autoaffermazione e del desiderio di porre se stesso al centro – ossia annunciare se stessi e non Gesù Cristo –, la tentazione della sensualità – compiacersi del potere, ossia ricercare la lode e il consenso degli altri – e, infine, la tentazione dell’ira e della vendetta – del tutto contrarie all’umiltà e alla magnanimità –. Era infatti convinzione di Benedetto che, solo dopo aver vinto queste tentazioni, egli avrebbe potuto dire agli altri una parola utile per le loro situazioni di bisogno. E così, riappacificata la sua anima, era in grado di controllare pienamente le pulsioni dell’io, per essere così un creatore di pace intorno a sé” (Benedetto XVI, Udienza generale del 9 aprile 2008).
Il Vangelo di oggi (Lc 22,24-30) richiama, infine, quel tratto limpido che viene subito alla mente quando si menziona Albino Luciani e che è fissato nel suo motto: “Humilitas”.
Le parole di Gesù sono proferite nel contesto dell’ultima cena e, quindi, nell’ora della croce e della cena eucaristica; in tal modo sono parole pasquali, ossia di vita. Riascoltiamole: “Chi è più grande – dice Gesù –, chi sta a tavola o chi serve? Non è forse colui che sta a tavola? Eppure io sto in mezzo a voi come colui che serve” (Lc 22,27).
Qui c’è il contrasto umanamente insanabile tra umiltà e grandezza; le parole di Gesù ci fanno capire che cresce e si fa grande solo chi è umile. Nel ministero il pastore/l’apostolo serve Cristo e, per questo, serve i fratelli, proprio in quanto serve e segue Gesù che è “via, verità e vita” (Gv 14,6).
Sembrano risuonare le parole con cui il 3 settembre del 1978, sul sagrato di questa basilica, papa Giovanni Paolo I diede ufficialmente inizio al suo ministero petrino confessando la sua umiltà, la cifra costante del suo essere: “Con attonita e comprensibile trepidazione, ma anche con immensa fiducia nella potente grazia di Dio e nella ardente preghiera della Chiesa, abbiamo accettato di diventare il Successore di Pietro nella sede di Roma, assumendo il «giogo», che Cristo ha voluto porre sulle nostre fragili spalle” (Giovanni Paolo I, Omelia nella S. Messa per l’inizio del ministero petrino del Vescovo di Roma, 3 settembre 1978).
E poi, più avanti, citando Leone Magno, aggiunge: “…noi godiamo non tanto di presiedere, quanto di servire… La nostra presidenza nella carità è un servizio” (ibidem).
Il cenno finale di quell’omelia si tramutò in preghiera affidata alla Vergine Maria “che ha guidato con delicata tenerezza – sono le parole di Luciani – la nostra vita di fanciullo, di seminarista, di sacerdote e di Vescovo” affinché “continui ad illuminare e a dirigere i nostri passi, perché, fatti voce di Pietro, con gli occhi e la mente fissi al suo Figlio, Gesù, proclamiamo nel mondo, con gioiosa fermezza, la nostra professione di fede: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente»”.