Card. Bassetti: comunione e corresponsabilità per sanare le fratture

Consiglio Episcopale Permanente della CEI

Pubblichiamo il testo dell’Introduzione del Cardinale Gualtiero Bassetti, Arcivescovo di Perugia-Città della Pieve e Presidente della CEI, ai lavori della sessione invernale del Consiglio Episcopale Permanente, che si svolge in videoconferenza il 26 gennaio 2021.

 

Cari Confratelli,

vi saluto di vero cuore, grato della presenza di ciascuno di voi e del lavoro che, insieme, porteremo avanti in questa sessione del Consiglio, a servizio del bene delle nostre Comunità e del nostro Paese.

Ritorno tra di voi dopo il periodo di malattia e, ancora una volta, vi ringrazio per la vicinanza e per la preghiera condivisa con le nostre Chiese. Saluto anche quanti mi hanno seguito nella strada tortuosa del COVID-19: da ultimo, il Cardinale Crescenzio Sepe, che non potrà partecipare ai lavori.

Il nostro pensiero va a quanti stanno patendo, nel corpo e nello spirito, gli effetti della pandemia, a quanti sono morti e ai loro familiari. A tutti, soprattutto ai poveri e agli emarginati, esprimiamo la nostra vicinanza, assicurando la sollecitudine e l’affetto della Chiesa che è in Italia.

Un benvenuto al Cardinale Giuseppe Petrocchi, Arcivescovo de L’Aquila, eletto Presidente della Conferenza Episcopale dell’Abruzzo e del Molise. Subentra a Monsignor Bruno Forte, Arcivescovo di Chieti-Vasto, che ringraziamo per il lavoro di questi anni.

  1. Nell’ultima settimana abbiamo pregato, come ogni anno, per l’unità dei cristiani. «Rimanete nel mio amore: produrrete molto frutto» (cfr Gv 15,5-9): è stato il tema che ha animato le tante iniziative. In questi giorni mi sono spesso interrogato su quale sia il frutto della nostra vita, che ci consente di verificare se davvero stiamo “rimanendo nell’amore di Dio”: cosa ci fa dire di essere davvero convertiti al Signore, come lo è stato Paolo? La risposta può ruotare intorno a una parola: riconciliazione. Scrive l’Apostolo delle genti: «Quando eravamo nemici, siamo stati riconciliati con Dio per mezzo della morte del Figlio suo» (Rm 5,10). Amando i nemici sino a dare la vita per loro, Gesù si è fatto ponte tra l’umanità peccatrice e il Padre misericordioso. Da questo mistero deriva però per noi credenti una conseguenza etica precisa: «Dio ci ha riconciliati con sé mediante Cristo e ha affidato a noi il ministero della riconciliazione» (2Cor 5,18). Il nostro compito di pastori oggi si configura anzitutto come opera di riconciliazione. In primo luogo fraterna, assumendo i panni della collaborazione e della solidarietà. Poi politica, ricucendo il tessuto sociale lacerato dalle fatiche economiche e sociali. E ancora con la scienza, nel senso di un’acquisizione responsabile delle conquiste come reale contributo al benessere di tutti. Riconciliazione… È questa la strada che il Signore ci apre in questo tempo. È un dono da far fruttare con fraternità e solidarietà, per non lasciar cadere nel vuoto la Sua chiamata.
  1. «Sarebbe bello se smettessimo di vivere in conflitto e tornassimo invece a sentirci in cammino, aperti alla crisi. Il cammino ha sempre a che fare con i verbi di movimento. La crisi è movimento, fa parte del cammino. Il conflitto, invece, è un finto cammino, è un girovagare senza scopo e finalità, è rimanere nel labirinto, è solo spreco di energie e occasione di male». Avete senz’altro riconosciuto in queste parole un passaggio del discorso del Santo Padre ai membri del Collegio Cardinalizio e della Curia Romana, per la presentazione degli auguri natalizi. Riconciliati, camminiamo come Chiesa che è in Italia sui sentieri che il Santo Padre, con sollecitudine paterna, c’indica. In questo senso accogliamo con gratitudine e riconoscenza l’anno di riflessione sull’Amoris laetitia, che si aprirà il prossimo 19 marzo, come opportunità per approfondire i contenuti del documento. Insieme allo speciale Anno di San Giuseppe, avviato lo scorso 8 dicembre, come invito a scoprire questa figura paterna che accompagna e guida le nostre famiglie. San Giuseppe, scrive il Santo Padre nella Lettera Apostolica Patris Corde, è «Padre amato; Padre nella tenerezza; Padre nell’obbedienza; Padre nell’accoglienza; Padre dal coraggio creativo; Padre lavoratore; Padre nell’ombra». Non sono semplici aggettivi che definiscono la paternità. È l’orizzonte del nostro essere Chiesa quest’oggi, con amore e tenerezza nelle pieghe di vissuti lacerati dalla pandemia. Un orizzonte che, cinque anni fa, Papa Francesco ha delineato nel Discorso che ci ha rivolto a Firenze, in occasione del V Convegno Ecclesiale Nazionale. «La Chiesa italiana – affermava il Santo Padre – si lasci portare dal suo soffio potente e per questo, a volte, inquietante. […] Sia una Chiesa libera e aperta alle sfide del presente, mai in difensiva per timore di perdere qualcosa». E ancora: «Mi piace una Chiesa italiana inquieta, sempre più vicina agli abbandonati, ai dimenticati, agli imperfetti. Desidero una Chiesa lieta col volto di mamma, che comprende, accompagna, accarezza. Sognate anche voi questa Chiesa, credete in essa, innovate con libertà». È una visione che ci deve liberare dall’angoscia o dalla paura di sbagliare. Dobbiamo metterci in cammino, con sguardo che punta oltre le emergenze del momento. Solo così il sogno può diventare realtà per le nostre comunità.
  2. Ritorna di estrema attualità, cari Confratelli, il tema che, come Chiesa in Italia, abbiamo approfondito negli anni Ottanta del secolo scorso: «Comunione e comunità». Una più profonda comprensione del dono della comunione può accrescere, senza dubbio, in tutta la nostra Chiesa la grazia dell’unità vissuta nella carità e renderà credibile l’annuncio evangelico che essa è chiamata a portare. È il dinamismo della fede che trova risposta in comunità più giuste e solidali. Un passaggio di quegli Orientamenti pastorali diventa fondativo di un cammino che prosegue nella storia e s’incarna nei nostri territori e nelle nostre parrocchie. «La vera cultura di comunione – si legge in quel testo – postula alcuni valori umani, quali l’attitudine al pensare insieme, alla condivisione dell’impegno, all’elaborazione comunitaria dei progetti pastorali, alla formulazione corretta di giudizi comuni sulla realtà dell’ambiente, all’adozione di forme d’intervento in cui si esprima l’anima cristiana di tutta la comunità interessata» (n. 63). Con questo stesso spirito, che appartiene alla nostra storia, guardiamo al futuro, i cui contorni sembrano offuscati da questo complicato presente. La Chiesa, giova ricordarlo, non è di questa o di quell’altra parte. Quello che ci sta a cuore è il bene di ogni persona e di ognuno insieme agli altri, quello di cui c’importa è la vita delle persone, quello che sosteniamo è il nostro Paese. Guardiamo, quindi, con attenzione e preoccupazione alla verifica politica in corso, in uno scenario già reso precario dalla situazione che stiamo vivendo. Auspichiamo che la classe politica collabori al servizio dei cittadini, uomini e donne, che ogni giorno, in tutta Italia, lavorano in operoso silenzio e che si giunga a una soluzione che tenga conto delle tante criticità. Come pastori dobbiamo farci interpreti ed essere voce delle molteplici fragilità, perché nessuno sia lasciato solo. Inoltre i prossimi mesi – non dimentichiamolo – saranno cruciali per la ricostruzione del sistema-Paese. Un tema su cui intendiamo dare il nostro contributo progettuale. «A tutta la Chiesa italiana – sottolineava il Santo Padre nel 2015 a Firenze – raccomando ciò che ho indicato in quella Esortazione (Evangelii gaudium, ndr): l’inclusione sociale dei poveri, che hanno un posto privilegiato nel popolo di Dio, e la capacità di incontro e di dialogo per favorire l’amicizia sociale nel vostro Paese, cercando il bene comune». È con amore alla persona, dunque, che evidenziamo – con una metafora medica – le varie fratture che la pandemia sta trasformando da isolate in associate, coinvolgendo tutti i legamenti che tengono uniti i nostri territori. Ecco, dunque, il dono della riconciliazione che c’impegna, come cristiani e cittadini, a una risposta di comunione e corresponsabilità.
  1. Anzitutto la frattura sanitaria. L’inizio di questo anno ha visto l’attenzione di tutti inevitabilmente rivolta ai vaccini anti-COVID. Molte voci diverse si sono levate, a volte in conflitto tra di loro, e nel rumore frastornante, amplificato dai vari media, si rischia di perdere l’orientamento. Da credenti sappiamo che la risposta viene dal discernimento e, nell’attuarlo, siamo chiamati a due doveri, diversi ma complementari. In primo luogo, al dovere d’informarci per capire quello che succede: è importante poter disporre di tutte le informazioni possibili per fugare perplessità e preoccupazioni, così come è altrettanto essenziale saper distinguere tra una fondata ricerca scientifica e un’opinione frutto di una condivisione sui social network. Il nostro secondo dovere ci viene dalla relazione con gli altri: tutto è connesso e il comportamento del singolo influisce sul bene della comunità. La responsabilità cristiana e civile di proteggere se stessi è intrinsecamente unita alla responsabilità verso gli altri. Oggi, grazie alla vaccinazione, vi sono i presupposti per far sì che un atto di protezione individuale possa divenire strumento di protezione collettiva. Lo ha ben sintetizzato Papa Francesco pochi giorni fa: «È un’opzione etica, perché tu ti giochi la salute, la vita, ma ti giochi anche la vita di altri». E sempre il Pontefice, nel messaggio del 25 dicembre 2020, ha ricordato che alla base deve restare la fraternità e che i vaccini per poter «illuminare e portare speranza al mondo intero, devono stare a disposizione di tutti».
  1. Accanto alla fiducia nell’efficacia del vaccino contro il virus, non possiamo trascurare i drammatici danni collaterali portati da questa pandemia. Vi è una frattura sanitaria che è anche una frattura sociale. Ancora non possiamo trarre una valutazione conclusiva sulle conseguenze a lungo termine di ciò che sta accadendo, ma i dati diffusi devono interrogare le coscienze e allarmare le Istituzioni e le agenzie educative tutte: solitudine, isolamento sociale, aumento delle malattie legate al disagio mentale, impennata di suicidi. I giovani, gli anziani, le persone con disabilità, le persone vulnerabili sono le prime vittime di queste infermità dell’anima. Per porre rimedio a queste situazioni purtroppo non c’è chimica che tenga. È necessario sviluppare un vaccino per la salute della mente o, come l’ha chiamato il Santo Padre, un vaccino per il cuore, i cui elementi costitutivi siano principi veramente attivi e vitali, come il rispetto, la gratitudine, l’altruismo, l’empatia, il sapere, il conoscere… I loro effetti, una volta entrati nel nostro animo, aumentano la capacità relazionale del prendersi cura di sé e degli altri.
  1. In questo contesto si fa purtroppo sempre più pressante la frattura delle nuove povertà rispetto alle quali i dati sono deflagranti. La situazione socio-economica in cui si trova il nostro Paese è fonte di preoccupazione crescente: è chiaro che una serie di problemi di carattere strutturale conosciuti da tempo, a lungo sottovalutati, sono da affrontare in modo indifferibile. Se non s’interviene efficacemente sul sovraindebitamento di famiglie e imprese, cadute per la prima volta a causa della pandemia nella condizione di debitori insolventi, si amplificheranno le già drammatiche condizioni per il ricorso all’usura e l’accesso della Criminalità organizzata nei tessuti economici e sociali. Dall’osservatorio della Consulta Nazionale Antiusura Giovanni Paolo II con le sue 32 Fondazioni che operano in tutta Italia, viene rilevato un quadro preoccupante che va dalle famiglie e piccole imprese familiari divenute insolventi – sono 3 milioni di nuclei, per circa 7,5 milioni di persone fisiche; a quelle che avevano già varcato la soglia di rischio e sono ora in fallimento “tecnico” per debiti – sono 2 milioni e 250 mila unità, per 6,5 milioni di persone; infine a quelle a rischio di usura – quantificabili in 350 mila famiglie e in 800 mila persone. Caritas italiana e le Caritas diocesane in questi mesi hanno visto crescere il numero di persone che a loro si sono rivolte per usufruire dei servizi erogati: materiali e non. Proprio le rilevazioni della Caritas ci dicono che, analizzando il periodo maggio-settembre del 2019 e confrontandolo con lo stesso periodo del 2020, è emerso che l’incidenza dei “nuovi poveri” è passata dal 31% al 45%: quasi una persona su due che si rivolge alla Caritas lo fa per la prima volta. È aumentato in particolare il peso delle famiglie con minori, delle donne, dei giovani, dei nuclei di italiani che risultano in maggioranza (52% rispetto al 47,9 % dello scorso anno) e delle persone in età lavorativa. È evidente che alla solidarietà generosa di molti, bisogna affiancare la volontà politica di andare oltre la logica delle misure d’urgenza e di sollievo temporaneo per elaborare una strategia che sia davvero di sistema, anche al fine di impiegare al meglio le risorse in arrivo. Occorre disegnare nuovi strumenti e soluzioni sostenibili e innovative dal punto di vista sociale e mettere in campo azioni di prossimità alle situazioni di fragilità economico-finanziaria, attraverso le quali intercettare i soggetti in difficoltà, ascoltarli e aiutarli a compiere le scelte giuste ai primi segnali di allarme senza attendere inerti l’aggravarsi della situazione. Si tratta di azioni da realizzarsi a livello capillare sul territorio da Istituzioni, Terzo Settore, parrocchie supportate dalle Caritas e dalle Fondazioni Antiusura, perché nessuno sia lasciato solo di fronte allo sconvolgimento psicologico, economico e spirituale che tutto ciò provoca e per evitare che a farsi prossime siano le organizzazioni criminali.
  1. La frattura sanitaria ha generato infine una frattura educativa, tema peraltro al centro della nostra riflessione nello scorso decennio e ancora di grande attualità. Stiamo imparando, con ancora più chiarezza, che i processi educativi sono significativi per le persone quando si basano sulla comunicazione dell’attenzione e della cura. Stiamo riconoscendo quanto le realtà educative abbiano bisogno di essere sostenute dalla collaborazione di tutti. Al nostro impegno educativo servono sguardi in avanti, creatività, progettualità. Non pensiamo astrattamente ai bambini, alle famiglie, ai giovani… Operiamo con loro. Invitiamoli a mettersi in gioco, a elaborare idee e progetti per scuole più inclusive, per parrocchie più vive, per percorsi di catechesi rinnovati. Non limitiamoci a mettere in evidenza alle nuove generazioni le fatiche, indiscutibili, di questi giorni, ma aiutiamoli a leggere in profondità quanto stanno vivendo. Riconosciamo la loro resilienza, comunichiamo loro la convinzione che anche questo è un tempo prezioso per imparare gli elementi essenziali della vita umana. Anche questo è un tempo per crescere, per apprezzare la vita, per prenderci cura di essa, per costruire futuro. Non è tempo perduto, se è tempo di semina e di costruzione.
  2. Cari Confratelli, lo sguardo attento su queste fratture invoca una particolare presenza di speranza della comunità ecclesiale accanto agli uomini e alle donne del nostro tempo. È doveroso rivolgere una parola di ringraziamento ai parroci, ai religiosi e alle religiose, ai catechisti, agli educatori. Pur nelle difficoltà e nelle ristrettezze, mai è mancata la proposta liturgica e di educazione alla vita cristiana. La necessità di attenersi a Protocolli di sicurezza è coniugata alla cura per la liturgia, che non deve mai essere trascurata. La limitazione del potersi incontrare ha attivato una creatività sorprendente, generando esperienze e linguaggi che sicuramente ci aiuteranno anche nel nostro discernimento in vista della prossima Assemblea Generale. Con una forza singolare risuonano, in tale contesto, le parole iniziali con cui la Costituzione pastorale Gaudium et spes invita i discepoli di Cristo a sentire come proprie «le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono» (GS 1).
    In questo comune sentire le nostre comunità cristiane sono chiamate ad abitare evangelicamente la crisi che pure le coinvolge e le attraversa, accettandola «come un tempo di grazia donatoci per capire la volontà di Dio». Sono, anche queste, parole pronunciate dal Santo Padre in occasione degli auguri natalizi alla Curia Romana. In esse è richiamato il potenziale di fecondità che ogni crisi porta con sé. Da parte nostra occorre che non perdiamo di vista questo orizzonte, perché in esso si intravede una prospettiva di futuro per le comunità ecclesiali, chiamate a maturare nuove consapevolezze in ordine alla loro presenza e alla loro missione nel mondo.
    Questo sarà possibile se si terrà lontano ogni rischio di autoreferenzialità ecclesiale, per incarnare sempre meglio uno stile di cura, che il tratto materno delle comunità cristiane ha come prerogativa singolare. In tal senso è decisivo che si continuino a mettere in atto azioni ecclesiali che facciano maturare quella comunione dinamica che dà forma a una Chiesa sinodale. In essa tutti i battezzati sono soggetti responsabili di una parola e di gesti capaci di dire il Vangelo a partire dalla molteplicità delle condizioni di vita nelle quali si esprime l’esistenza di ciascuno. Una Chiesa così connotata, che custodisce la propria identità di popolo di battezzati, potrà esprimersi attraverso una ricchezza di carismi e di ministeri con cui il servizio al Vangelo, nella comunità e al di fuori dei suoi confini, si traduce sempre meglio in una diakonia dell’umano nella sua integralità e complessità. Ci guidano, come dicevo prima, le parole di Papa Francesco: «Desidero una Chiesa lieta col volto di mamma, che comprende, accompagna, accarezza. Sognate anche voi questa Chiesa, credete in essa, innovate con libertà» (Firenze 2015). Abbiamo un metodo: il discernimento della fede; abbiamo un interesse: la persona; abbiamo una prospettiva: la comunità. Camminiamo su questo sentiero.

Cari Confratelli, affidiamo questa giornata di lavoro alla materna intercessione della Vergine Maria, al suo sposo Giuseppe e a tutti i Santi e le Sante venerati nelle nostre Chiese.