Come abbiamo già sentito dal brano che ci è stato proposto all’inizio di questa veglia, il messaggio del Papa per la Giornata missionaria di quest’anno ci invita a guardare alla missione a partire dall’esperienza, purtroppo non ancora conclusa della pandemia. E’ un modo di guardare alla missione inconsueto e che forse un po’ ci sconcerta. Siamo abituati infatti a pensare alla missione a partire dalla nostra fede, dalle nostre convinzioni per trasmetterle agli altri, il Papa ci invita invece a guardare alle sofferenze dell’umanità, per trovare lì la radice della vocazione missionaria: «Capire che cosa Dio ci stia dicendo in questi tempi di pandemia diventa una sfida anche per la missione della Chiesa. La malattia, la sofferenza, la paura, l’isolamento ci interpellano. La povertà di chi muore solo, di chi è abbandonato a sé stesso, di chi perde il lavoro e il salario, di chi non ha casa e cibo ci interroga. Obbligati alla distanza fisica e a rimanere a casa, siamo invitati a riscoprire che abbiamo bisogno delle relazioni sociali, e anche della relazione comunitaria con Dio. Lungi dall’aumentare la diffidenza e l’indifferenza, questa condizione dovrebbe renderci più attenti al nostro modo di relazionarci con gli altri. E la preghiera, in cui Dio tocca e muove il nostro cuore, ci apre ai bisogni di amore, di dignità e di libertà dei nostri fratelli, come pure alla cura per tutto il creato».
Nelle parole del Papa proprio la pandemia che blocca le nostre iniziative pastorali, diventa il punto di partenza per una nuova azione missionaria. Quanto abbiamo vissuto e ancora stiamo vivendo riaccende una domanda di senso che in condizioni normali si era come assopita e da qui può partire un percorso di scoperta (o riscoperta) della fede in Gesù Cristo e un’apertura inattesa al Vangelo.
Per incontrare questa domanda però abbiamo bisogno di cambiare il nostro atteggiamento: noi siamo abituati ad invitare gli altri a venire da noi (ad esempio in parrocchia) per incontrarli invece è necessario che noi andiamo incontro a loro per raggiungerli là dove vivono: è questo il significato della famosa espressione di Papa Francesco «chiesa in uscita». E’ un andare incontro non solo fisico, geografico, ma anche e soprattutto spirituale: è necessario che andiamo a incontrare le persone nelle loro sofferenze e nelle loro attese e ciò comporta condivisione della vita e ascolto. Richiede pazienza e discrezione. Occorre in altri termini saper entrare in relazione da un punto di vista umano, facendosi vicini, anzi ancora di più facendoci «ospitali», capaci cioè di far spazio all’altro nella nostra vita. Non si tratta solo di una strategia per farci accogliere e diventare simpatici ai nostri interlocutori, ma è già un trasmettere il messaggio del Vangelo che nel suo nucleo fondamentale consiste nell’annunciare l’amore di Dio per ogni uomo.
Le inchieste sulla religiosità in Italia ci dicono che una gran parte della popolazione, pur avendo un riferimento molto labile o addirittura inconsistente con la chiesa e con la vita cristiana, non ha ancora staccato ogni legame: è come se molti esitassero a rompere definitivamente con la tradizione religiosa che ha caratterizzato il nostro paese. La nostra principale chiamata missionaria è verso questi nostri fratelli e sorelle. E’ una chiamata ad accoglierli nelle loro incertezze e contraddizioni, mostrando loro con pazienza la via di Gesù, una via che può dare senso pieno alla nostra vita anche in mezzo alle prove e alle sofferenze di questo tempo.