L’incontro di oggi continua una consuetudine, nata da una felice intuizione del mio predecessore, mons. Lucio Soravito De Franceschi (a cui va un ricordo di affettuoso e riconoscente) e desidera essere un incontro tra la chiesa locale e la società civile.
Quest’anno il convegno si svolge in un momento di particolare difficoltà per il nostro Paese e anche per la nostra realtà locale: difficoltà per i preoccupanti segnali di recessione economica ma anche per una situazione politica precaria e contraddittoria. Prendo a prestito un passaggio della prolusione del Presidente della CEI alla riunione del Consiglio Permanente della CEI per esprimere la preoccupazione e i timori che nascono guardando allo scenario sociale economico: «Personalmente, non temo tanto le difficoltà, quanto lo scoraggiamento e la sfiducia, che costituiscono il terreno sul quale il male attecchisce e cresce. Temo l’indifferenza con cui il male si impadronisce delle nostre paure per trasformarle in rabbia. Temo l’astuzia che si serve dell’ignoranza. Temo la vanità che avvelena gli arrivisti. Temo l’orizzonte angusto dei luoghi comuni, delle risposte frettolose, dei richiami gridati. Il male ama l’ordine fine a se stesso, la potenza, la ricchezza; lo Spirito, invece, è fuoco, è libertà vigile, è sorpresa e incontro. Il male invecchia, arrabbiato e stanco; il bene è una giovane primavera. La relazione cristiana non è un galateo o una lezione di buone maniere, bensì una disposizione del cuore e della mente, una scoperta di quanto sia possibile affrontare anche i problemi più impegnativi quando si ha amore».
Come Pastore vorrei che la nostra Chiesa di Adria-Rovigo davanti a questo contesto sapesse porsi con amorevolezza e sollecitudine: questo convegno pertanto vuole esprimere proprio amore e sollecitudine verso una società civile fragile, ferita e smarrita. Non vi è alcun desiderio di proporre antiche egemonie o ricerca di influenze, ma desiderio di contribuire al bene comune. Il contributo che la Chiesa può e deve dare oggi è innanzitutto quello di una parola «profetica». Viviamo in una società dove dominano la sfiducia e lo scoraggiamento, dove la paura si trasforma in rabbia e dove l’astuzia si serve dell’ignoranza. Questa società ha bisogno di una parola che riapra un cammino verso il futuro, superando la spirale perversa che di chiusura in chiusura ci porta ad una contrapposizione sempre più aspra e ad un individualismo esasperato. «Ricostruire la speranza, ricucire il paese, riconciliare la società» – cito sempre il card. Bassetti – sono infatti gli obiettivi da perseguire per uscire dalla crisi attuale.
La parola profetica è una parola che indica un «oltre» a cui tendere e in cui credere. Per questo è una parola che apre: una triplice apertura al futuro, al mondo e all’altro.
La profezia di cui stiamo parlando è la profezia della fraternità. La missione di Gesù è stata quella di far conoscere un Dio che è Padre di tutti gli uomini che pertanto si trovano ad essere legati tra loro da un vincolo di fraternità. La fede cristiana per sua natura porta l’umanità verso l’unità, abbattendo i muri di separazione tra i vari gruppi umani.
L’esperienza della fraternità, fondata sull’amore trinitario, ha una valenza “politica” in quanto rende possibile quell’uscire da sé che porta all’intesa tra portatori di interessi diversi in cui consiste l’arte di governare la polis, ovvero la buona politica.
Nella prolusione tenuta per il Dies Academicus della Facoltà Teologica del Triveneto, il teologo Christoph Theobald, ha spiegato che «… nessuna società può esistere senza un dialogo sociale capace di superare l’eterno combattimento degli interessi personali o gruppali e la lotta tra poteri di fatto e di diritto, ivi compresi gli influencers, chiamati a volte “intellettuali”. Non c’è alcun dialogo senza che ci si creda e senza “uscire da sé”, tanto meno senza rinuncia a un dato privilegio o vantaggio acquisito; cosa che sembra sempre più difficile allorquando intervengono delle differenze sociali e culturali nonché delle convinzioni diverse. Solo un sentimento reale e quasi-fisico di “fraternità” può allora rendere possibile un superamento della lotta sociale e dare accesso ad una intesa e ad una coesione, pur sempre fragile e provvisoria. L’autorità si trasforma qui in autorità della fraternità; trasformazione che suppone una autorità fraterna, capace di suscitare – per contagio, se posso dire così – il sentimento della fraternità o “lo spirito di fraternità” (secondo la Dichiarazione universale), precisamente là dove le “tormente della storia” rischiano di ingoiarla».
Come è stato osservato «Fin dagli anni Sessanta del Novecento si è fatta strada la percezione di un “deficit” della riflessione politica, di una sua, almeno parziale, impotenza nell’affrontare i problemi irrisolti, non solo quelli dei popoli economicamente e politicamente più fragili, ma anche quelli delle democrazie più evolute ed economicamente potenti. Queste ultime, infatti, hanno dato una certa realizzazione ai principi di libertà e uguaglianza, ma è sotto gli occhi di tutti che sono ancora lontane da una loro piena realizzazione; in molti, addirittura, ha cominciato ad affacciarsi il dubbio se la democrazia sia effettivamente in grado di applicare tali principi e di assicurare ai cittadini i diritti universali per i quali è nata. Sta crescendo un movimento di sfiducia nei confronti delle istituzioni della democrazia, per certi aspetti simile a quello che favorì la nascita dei regimi autoritari e totalitari nella prima metà del Novecento. La crisi finanziaria ed economica che ha attanagliato i Paesi occidentali dal 2008 in poi, ha avuto tra i suoi effetti quello di polarizzare sempre più le società avanzate, aumentando la differenza tra ricchi e poveri e il numero assoluto di questi ultimi; e ha peggiorato ulteriormente le condizioni dei popoli che già vivevano le maggiori difficoltà, spingendoli sempre più verso il ruolo di “scarto” denunciato da papa Francesco. Oggi, in conclusione, siamo tutti meno liberi e meno uguali. (cf. Antonio Maria Baggio, La sfida della fraternità, in Osservatore Romano 16.01.2019 p.4-5). La risposta a questo “deficit” è stata individuata da molti studiosi, anche al di fuori dell’ambito cristiano (cito tra gli altri Zygmunt Baumann) proprio nella via della fraternità.
Solo se i membri di una società, di un paese, di un territorio riescono a pensarsi dentro questa fondamentale unità è possibile condividere un percorso comune. La dialettica democratica di maggioranza e minoranza è secondaria e strumentale rispetto alla consapevolezza di una comune appartenenza. Qui sta il fondamento di una azione politica che non sia solo affermazione di un interesse di parte ma ricerca del bene comune.
Le considerazioni svolte hanno una portata generale ma possono essere applicate anche alla realtà del nostro territorio: mi sembra anzi si possa dire che la particolare fragilità della nostra realtà le rendano ancora più rilevanti. La frammentazione che caratterizza il Polesine infatti accentua la difficoltà di riconoscersi parte di una stessa comunità: l’identità particolare tende a prevalere su quella più ampia in una deriva che porta a entità sempre più piccole e incapaci di creare intese e sinergie. Il risultato di tutto questo è la perdita di rappresentanza a livello regionale e nazionale e l’incapacità di proporre e perseguire progetti condivisi di sviluppo del territorio. La via di uscita non può essere cercata solo in soluzioni contingenti ma deve consistere in una rigenerazione morale e culturale della nostra società civile. Bisogna lavorare per formare una coscienza nuova, una vera cittadinanza attiva. Su questo ci stiamo spendendo come chiesa locale promuovendo percorsi di formazione sociopolitica e dedicando a queste tematiche il prossimo Festival Biblico. Mi auguro che i contributi di questo convegno siano di stimolo per riunire quanti condividono l’urgenza di riavviare il circolo virtuoso tra partecipazione popolare e leadership, condizione essenziale per dare al nostro Polesine un futuro di sviluppo e di progresso.